NipPop x FEFF25 - “Yudō”: bagni caldi o acqua bollita?


Avete mai sentito parlare del "goemon buro" (vasca goemon)? Si tratta di una antica vasca giapponese in ferro che veniva riscaldata accendendo un fuoco al di sotto della stessa per potersi godere un bagno caldo in mancanza di fonti termali nelle vicinanze. Si tratta di una delle tante 'spigolature' dedicate alla cultura giapponese dei sentō, i bagni pubblici, che ormai stanno scomparendo dal panorama urbano contemporaneo e che potrete imparare a conoscere guardando Yudō, pellicola presentata al Far East Film Festival 25 e recensita per voi da NipPop!

Il film, scritto da Koyama Kundo e diretto da Suzuki Masayuki, due nomi molto famosi nel panorama cinematografico nipponico, è un viaggio nel mondo e nella cultura dei sentō. Diversi dalle più famose e sofisticate (nonché costose) onsen, le terme dove l'acqua sgorga naturalmente calda, nel sentō l'acqua viene scaldata artificialmente, anticamente con una caldaia a legna, più recentemente grazie a molto più moderni impianti a gas. I sentō erano tantissimi fino al secondo dopoguerra, quando ancora la maggior parte delle case giapponesi dei quartieri popolari non aveva la vasca da bagno. A partire dagli anni ’60 in poi, complice il riscatto economico del Giappone e l'innalzarsi del tenore di vita, le case offrono maggiori comodità, e i sentō diminuiscono fino ad essere, nella Tokyo di oggi, una sparuta manciata. Leggermente migliore la situazione nelle piccole città di campagna, e proprio su questi contrasti (città / piccole comunità, tradizione / modernità) si sviluppa la storia del film. 

Il padre dei fratelli Goro e Shiro muore lasciando nelle loro mani il bagno Marukin, un sentō vecchio stile alimentato da una stufa a legna, punto di ritrovo per un'allegra combriccola di personaggi locali. Mentre Goro prende le redini e sembra voler subentrare al defunto genitore, Shiro - architetto ex-enfant prodige trasferitosi a Tokyo che naviga economicamente in cattive acque - fiuta l'affare per rilanciare la propria carriera. 

Koyama e Suzuki, vecchie volpi, sanno giocare bene la carta del sentimentalismo: sfruttando una serie di consumati cliché (la coppia di vecchietti che frequentano il bagno insieme da una vita, la mamma che aspetta il ritorno del figliol prodigo...) che garantiscono risultati sicuri, portano facilmente lo spettatore dalla parte dei sostenitori della tradizione, delle piccole comunità e dei buoni sentimenti. Purtroppo la realtà giapponese è ben diversa, e la fame di terreni edificabili dell'edilizia contemporanea, così come la costante diminuzione della popolazione al di fuori delle maggiori aree urbane del paese, raramente tengono conto di queste realtà scaldacuore. Sarebbe stato forse più interessante vedere queste stesse problematiche declinate nella chiave di un film di denuncia di, che però molto probabilmente non avrebbe commosso lo spettatore e avrebbe mandato in frantumi la favola - ribadita sin dalle primissime battute in apertura - dei giapponesi grandi amanti della natura. 

E così, tra famiglie perse e ritrovate, un costante scontro ad armi spuntate tra il Giappone e un generico Occidente (sempre rappresentato come un luogo i cui abitanti devono conoscere e fare propria la cultura giapponese della quale però non sapranno mai cogliere l'intima essenza), e momenti di illuminazione zen, seguiamo la "via dell'acqua" (yudō), parodia di altre più famose "vie" delle arti giapponesi, come la calligrafia (shodō), o la cerimonia del tè (chadō).

Ci immergiamo quindi - metaforicamente e non solo - nella nostalgia per il furusato (la campagna non inquinata dalla modernità dove affondano le nostre radici), nelle piccole comunità, nel romanticismo facile e - ahinoi - a tratti melenso, che sa bene come catturare i sospiri del pubblico. 

Il film è scorrevole, strappa delle oneste risate, e, strizzando l'occhio ai buoni sentimenti (You are my sunshine cantata dal cast sui titoli di coda per esempio è una evidente mossa acchiappa-applausi), ottiene il risultato voluto. Ma da un titolo in gara a un festival cinematografico ci si aspetta di più. 

Nota simpatica per concludere: il nome goemon buro viene dal famoso ladro Ishikawa Goemon (quello che ha ispirato il personaggio del celeberrimo Lupin III, per intenderci), attivo nella seconda metà del XVI secolo, il quale, una volta catturato, fu immerso proprio in una grossa vasca di ferro e venne bollito vivo.

Trailer: