Alice in Borderland: “C’è qualcosa che non possiamo fare per sopravvivere?”


Spesso si dà per scontato la straordinarietà di essere vivi. Non ci si accorge del valore della propria vita fino a quando essa non viene messa a repentaglio. Ma come vi comportereste se doveste continuamente guadagnarvi il diritto di vivere partecipando a dei brutali survival games? Riuscireste a fare i conti con il rischio concreto di una morte imminente o sareste disposti a tradire le persone intorno a voi pur di sopravvivere?


La nostra vita ha una scadenza. Finora ho vissuto senza pensarci. Quei ragazzi sono morti credendo in me. Potrei morire anch’io presto. Per ora, non voglio sprecare più un attimo!

Alice in Borderland è l’ultima serie live action sbarcata su Netflix il 10 dicembre, per la regia di Shinsuke Satō, già autore di  Gantz - L'inizio e I Am a Hero, e basata sulla sceneggiatura di Yoshiki Watabe e Yasuko Kuramitsu oltre che dello stesso Satō. 

Tratto dall’omonimo manga di Haro Aso pubblicato in Italia da Flashbook edizioni in diciotto volumi, l’adattamento di Netflix riprende i personaggi e le situazioni dei primi sette volumi in una trasposizione di otto episodi.

La trama segue le vicende di Arisu, un giovane disoccupato che passa la maggior parte del suo tempo a giocare ai videogiochi, e dei suoi due amici Karube e Chōta che, durante un’uscita pomeridiana, si ritrovano all’improvviso catapultati in un mondo parallelo, chiamato Borderlands. Inizia così la loro lotta per la sopravvivenza in un mondo spietato, dominato da letali survival games, dove il diritto e il privilegio di restare in vita vanno continuamente conquistati, superando prove sempre più difficili e crudeli. 

Sia la serie televisiva sia il manga riescono brillantemente nella rappresentazione della stranezza della nuova e insolita Tokyo, sebbene in modi diversi: nel manga domina un’ambientazione post-apocalittica in cui gli edifici sono alquanto malridotti e ricoperti di polvere, la vegetazione cresce rigogliosa fra i grattacieli della capitale e si possono notare alcuni animaletti selvatici girovagare liberamente tra le strade abbandonate. L’umanità sembra essere scomparsa da molto tempo ormai, ma per i protagonisti si è trattato solo di una manciata di secondi. Al contrario, nella serie televisiva la straordinarietà dell’evento viene evidenziata dalla contrapposizione delle inquadrature che fissano il quartiere di Shibuya. All’inizio ci si concentra su una Shibuya rumorosa, gremita di persone, piena di vita, dove il chiacchiericcio delle persone indaffarate si mescola al rombo dei motori delle macchine in movimento. Queste scene di un quartiere vivo e caotico vengono a stridere poi con le panoramiche di una Shibuya vuota, silenziosa, in cui le figure dei nostri protagonisti spiccano in un paesaggio deserto e immobile. In questo caso, però, la scomparsa delle persone sembra essere avvenuta in un istante, come viene sottolineato dalle sigarette appena spente e dai piatti ancora caldi sui tavoli dei ristoranti. La musica, inoltre, riesce perfettamente nel suo intento: l’inquietudine dei giovani protagonisti e l’eccezionalità della situazione vengono espresse in modo impeccabile grazie all’alternarsi dei momenti di silenzio e della musica di sottofondo.

Sto passando una giornataccia. […] Vorrei andare in un posto sconosciuto.

Un aspetto abbastanza importante, che non viene particolarmente sottolineato nell’adattamento Netflix, è il profondo senso di insoddisfazione che attanaglia i personaggi all’inizio della vicenda. In particolare in Arisu si evidenzia una forte pulsione escapista, che lo porta a sperare in qualche catastrofe naturale o addirittura in un’apocalisse zombie. Il desiderio di fuga dalla realtà viene rappresentato perfettamente nei primi istanti dopo che i nostri protagonisti mettono piede nell’insolita Tokyo deserta. Il loro primo pensiero è che sia un sogno, una città completamente vuota che può trasformarsi nel loro luogo paradisiaco, in cui possono sottrarsi alla noiosa e soffocante routine e possono finalmente trovare la libertà tanto agognata e non essere più dipendenti dai genitori e dagli insegnanti. Per questo, Arisu e Chōta, senza porsi troppe domande sulla loro reale situazione, decidono di godersi la nuova vita tanto desiderata e di rilassarsi mangiando snack, bevendo alcool e giocando a bowling.

Questo primo momento idilliaco, però, finisce presto, nel momento in cui accidentalmente partecipano al loro primo game

Mi sorprende come io sia disposta a fare di tutto, solo per sopravvivere.

Uno degli elementi più interessanti della serie è la creatività dei games che variano a seconda della carta da gioco corrispondente. Il numero della carta stabilisce la difficoltà del game, mentre il seme ne stabilisce la tipologia: i giochi di picche si basano sulle capacità fisiche, quelli di quadri sui rompicapi, quelli di fiori sul lavoro di squadra e infine quelli di cuori, i più pericolosi, sui sentimenti delle persone. Ma l’uso dei games non è altro che una strategia che l’autore usa non solo per affrontare temi importanti quali la giustizia e l’amicizia, ma soprattutto per indagare la vita stessa, come a volte venga data per scontata e come di fronte alla morte il nostro attaccamento a essa si riveli senza pari. E, appunto, il primo game del manga ne è l’esempio perfetto. 

Siamo ancora vivi. Affrontiamo tutti la disperazione e combattiamo fino alla fine. Non disprezzate chi è ancora vivo!

Il primo game che affrontano i nostri protagonisti nel manga è in realtà diverso da quello rappresentato nella serie televisiva, che non riesce a esprimere pienamente la spietatezza del mondo in cui si ritrovano e a raggiungere il livello di analisi che le tavole del manga hanno saputo realizzare.

Il game consiste nell’estrarre un omikuji, un biglietto che si pesca nei templi shintoisti e buddisti contenente una predizione divina che può variare da una grande benedizione a una terribile maledizione, e rispondere alla domanda presente sul foglio. Gli argomenti sono vari, si passa da espressioni matematiche a domande di cultura generale, e la difficoltà dipende dalla divinazione estratta. La tensione durante il gioco cresce esponenzialmente, in quanto a ogni estrazione la fortuna della divinazione diminuisce progressivamente fino all’ultimo omikuji pescato: grande maledizione. Ed è proprio in questo momento che l’autore riesce a mostrare la discesa nella disperazione di fronte a quella che sembra una inevitabile morte e la perdita di ogni speranza. L’atmosfera carica di suspence permea ogni pagina tenendo il lettore sospeso e in ansia, alla ricerca della possibile soluzione. Ma anche nelle situazioni peggiori, l’istinto primordiale di sopravvivenza porta l’uomo ad andare avanti fino alla fine, a cercare una via di salvezza. Questo caratterizza anche il nostro protagonista Arisu: infatti anche quando sembra non ci siano più speranze, il suo desiderio di continuare a vivere è così forte da spingerlo a non arrendersi fino all’ultimo secondo, e a prestare maggiore attenzione ai dettagli per trovare la soluzione finale.

Pensa se degli zombie apparissero a Shibuya. […]
Solo Karube sopravviverebbe agli zombie. Li stenderesti con i pugni.
No, non sarei io. Saresti tu a sopravvivere, Arisu.
Io? Perché?
Sono sicuro che saresti tu.

È proprio grazie alla sua attenzione ai dettagli e ai suoi brillanti ragionamenti che Arisu riesce a risolvere vari games durante la sua permanenza nei Borderlands, ma una grande pecca della serie televisiva è il fatto di non dare voce ai pensieri dei personaggi, pensieri che sono invece al centro del manga. Per questo, dovendo condensare all’incirca trenta capitoli in soli otto episodi, la serie Netflix non è riuscita ad approfondire psicologicamente molti dei personaggi dei primi episodi, cosa che il manga riesce a fare magistralmente anche con poche pagine o panels. Nelle prime puntate, infatti, c’è una quasi totale mancanza di riferimenti alla vita normale che i ragazzi facevano prima dei games, al modo in cui si sono incontrati, al loro legame e a come tutto cambia nella nuova Tokyo, all’insicurezza e alla disperazione alle quali vanno incontro. Nella seconda metà, invece, con l’aggiunta di nuovi personaggi vengono anche mostrati il loro passato e le motivazioni che li spingono a comportarsi in un certo modo o a prendere determinate decisioni. I flashback, toccanti e interessanti, fanno la differenza perché consentono allo spettatore di capire meglio ciò a cui assiste e a conoscere i personaggi più in profondità.

Inoltre, a volte sembra che gli attori non riescano a esprimere adeguatamente le intense emozioni provate dai personaggi, che si ritrovano in un mondo spietato caratterizzato per la maggior parte del tempo da situazioni estreme e strazianti. A differenza del manga che, grazie proprio al suo formato, riesce a raffigurare la fragilità e la crudeltà umana in modo lampante, suscitando empatia da parte del lettore. 

C’è qualcosa che non possiamo fare per sopravvivere?

La serie Netflix opera varie modifiche rispetto all’originale, distaccandosene in certi momenti, forse per amalgamarsi al gusto del consumatore moderno, ma nel complesso è uno dei migliori live adaptation di un manga degli ultimi anni che, grazie alla trama accattivante, agli interessanti protagonisti e agli inaspettati colpi di scena, riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo e a costringerlo a cliccare continuamente sul tasto “Prossimo episodio”.

Alice in Borderland è diventata una delle serie più popolari di Netflix, rimanendo per molto tempo nella lista dei Top 10 in tutto il mondo, perciò non è una sorpresa che a sole due settimane dall’uscita la piattaforma abbia già annunciato la produzione della seconda stagione in diversi post ufficiali su Twitter.

 

https://twitter.com/NetflixMY/status/1342017166279925760?s=20