Il cane che guarda le stelle: storia di un legame indissolubile

Murakami Takashi, Il cane che guarda le stelle (Hoshi Mamoru Inu)
Futabasha Publishers Ltd., Tokyo (2008)
Traduzione italiana di Marco Franca per Edizioni BD srl, Milano.

Sei un “cane che guarda le stelle”. Con “guardare” intendo “continuare a fissarle”. Quindi un cane che osserva tutto il tempo con brama quelle stelle che non potrà mai avere. È un’espressione idiomatica che indica le persone che puntano troppo in alto. È inutile continuare solo ad osservare ciò che non si può avere.

Il Cane Che Guarda Le Stelle (Hoshi Mamoru Inu 星守る犬 ) è il titolo di una delle opere di maggiore successo di Murakami Takashi: a oggi conta più di 400.000 copie vendute ed è stato di ispirazione per la realizzazione di un film omonimo, per la regia di Takimoto Tomoyuki.

È Happy il nome del cucciolo di Shiba Inu che entra a far parte all’improvviso della vita di una normalissima famiglia della media-borghesia giapponese. Sarà però il papà a godere inaspettatamente della compagnia dell’animale, fino a quando i due non diverranno tanto inseparabili da spingere l’uomo a compiere un grande sacrificio per tentare di salvare la vita del cane.

La seconda parte della narrazione vede il focus spostarsi sulla vita di Okutsu, assistente sociale chiamato a indagare sull’identità del cadavere di un senzatetto e su quello del suo amico a quattro zampe, ritrovati in una vecchia macchina abbandonata in un campo di girasoli. “E se fosse stato felice da far invidia e avesse nascosto la sua identità perché non voleva essere riportato indietro?” è questa la domanda che il protagonista si pone nei confronti dell’uomo, una volta rimessi a posto tutti i tasselli della sua vita.

Un racconto toccante che affronta in modo crudo e inusuale l’ormai prolisso tema dell’amicizia cane-padrone, magicamente incorniciato dai disegni del maestro Murakami.

E adesso, in esclusiva per Nippop, sarà lo stesso Marco Franca, traduttore italiano del manga, a parlarci nel dettaglio dell’opera!

NipPop: Sarai ospite di NipPop 2016 in quanto traduttore di importanti serie sci-fi come Devilman e Mazinger. Il cane che guarda le stelle però è un’opera totalmente distante da queste. Com’è stato approcciarsi alla lavorazione per un manga del genere?

Marco Franca: Ciao a tutti! Devo dire che lavorare su opere che parlano del quotidiano è tendenzialmente più semplice che tradurre storie di fantascienza o fantasy: in questi ultimi casi infatti ci si ritrova spesso a dover affrontare lunghe ricerche per la resa dei termini in quanto nella maggior parte delle volte ci sono richiami a teorie o leggi fisiche o comunque riferimenti a una letteratura di genere, con omaggi o citazioni. Quando ci si approccia invece a opere più intime come questa, la traduzione scorre più liberamente, anche se bisogna sempre prestare attenzione ai registri linguistici e alla scelta delle parole: proprio perché si tratta di storie che parlano di situazioni reali e quotidiane, occorre cercare di dare la maggior naturalezza possibile al testo per far sì che le situazioni e i personaggi risultino effettivamente vicini ai lettori. Avremo quindi parlate dialettali (che solitamente vengono rese con un linguaggio un po’ più colorito), registri più o meno rudi, differenziazione tra la lingua usata da un adulto e quella usata da un bambino (nel nostro caso assimilabile al cane, vero e proprio “figlio minore” della famiglia…): il vero piacere della traduzione in opere del genere è proprio quello di ridare vita con le parole ai personaggi e ai rapporti che intercorrono tra di loro.

NP: In Giappone la storia ha riscosso un enorme successo, tanto da portare alla realizzazione di un film omonimo e alla pubblicazione di un secondo volume. Secondo te cosa è piaciuto tanto al pubblico? Ed è un successo replicabile anche qui in Italia?

M.F: In Giappone il volume è stato effettivamente un piccolo successo editoriale: partire da una storia breve e arrivare a un film che arriva a piazzarsi nei primi posti dei film dell’anno in quanto a gradimento e numero di spettatori non è da poco. Sicuramente parte del successo lo si deve al fatto che il manga va a inserirsi sulla scia di una storia come quella di Hachiko che rappresenta l’emblema della fedeltà di un cane nei confronti del padrone e della profondità del legame tra uomo e animale, vicenda tuttora estremamente sentita in Giappone. Però credo che il vero punto forte di questa storia risieda più che altro nella grandissima umanità che possiede: è un manga che parla a tutti perché è estremamente vicino alla realtà o ai ricordi che ognuno di noi ha dentro. Mi riferisco in particolar modo alle difficoltà del protagonista, che è un uomo qualunque, ma che vede la sua vita cadere a pezzi poco alla volta; o ai ricordi nostalgici e amari di Okutsu, che si rende conto di qualcosa d’importante solo ora che il suo vecchio cane non c’è più. Tutti noi in fondo siamo un po’ “papà” (otōsan) e “Okutsu”. Replicare un successo simile in Italia a parer mio credo che sia molto difficile, ma non tanto per l’opera in sé, quanto per il diverso impatto che ha il fumetto sulla cultura di massa: in Giappone leggersi un manga è la norma, tanto che si trovano fumetti di ogni genere e per ogni target, mentre in Italia il fumetto resta ancorato alla nicchia degli appassionati. Per quanto questa sia una storia assolutamente trasversale e dai contenuti universali, credo sia ancora difficile sdoganarla proprio per via del mezzo narrativo (il fumetto) usato per raccontarla. Ultimamente però le case editrici stanno cercando sempre più di affacciarsi al mercato delle librerie generiche e non solo a quelle specializzate per portare il fumetto anche fuori dalla cerchia ristretta dei fans e spero che un giorno questo mezzo espressivo possa venire liberato dai tanti pregiudizi per far sì che certe storie meritevoli, come questa, arrivino veramente a tutti.

NP: I due capitoli dell’opera ci presentano due tipologie di padroni differenti: il primo è molto legato al suo compagno a quattro zampe, mentre il secondo riesce ad affezionarvisi completamente soltanto dopo la sua morte. Tu hai vissuto la storia come padrone di un cane? Questo ha in qualche modo influenzato il tuo approccio alla narrazione?

M.F: Sicuramente avere animali domestici aiuta ad avere un’immedesimazione molto realistica con i protagonisti dei due episodi: i cani sanno amarti in maniera molto pura e naïf, del tutto disinteressata, e Happy o il cane di Okutsu ne sono l’esempio perfetto, diventando quindi non solo due protagonisti della storia, ma anche il mezzo tramite cui il lettore riesce ad entrare in empatia, grazie al proprio vissuto, con la storia stessa. Il manga parla però secondo me anche con un linguaggio molto più universale, accessibile a chiunque, anche a chi non ha o non ha avuto animali: parla infatti della perdita dei propri affetti, del lutto, della nostalgia di un mondo andato, ripensato ormai con qualche rimpianto, di ciò che rappresenta la felicità da ritrovare nelle piccole cose. Come ho detto anche prima, tutti noi in parte siamo i due protagonisti e anch’io -probabilmente sarò un sentimentale…- durante la prima lettura ho faticato a trattenere qualche lacrima.

N.P: L’esistenza di un film ispirato al manga ti ha aiutato nel lavoro di traduzione? Se sì, come?

M.F: A essere onesti, non mi ha influenzato minimamente… in quanto sono riuscito a recuperarlo solo dopo aver concluso la traduzione. In ogni caso, quando mi trovo ad affrontare manga che hanno già una trasposizione anime o cinematografica preferisco sempre guardare questi ultimi solo successivamente e concentrarmi solo sul fumetto per “gustarmi” l’opera in sé, senza influenza di altri media. A volte però questi ultimi mi sono anche venuti in soccorso: ricordo ad esempio un manga dai dialoghi piuttosto frenetici e intensi, in cui ogni tanto trovavo delle battute troppo “sintetiche” che faticavo a rendere in italiano… almeno fino a quando non mi rivolgevo alla sua controparte animata, dove, grazie a tempi narrativi completamente differenti, il tutto veniva dipanato in modo molto più semplice e chiaro.

N.P: Ci sono stati momenti in cui hai dovuto effettuare cambiamenti rispetto al testo originale per meglio adattarlo alla versione italiana? Se sì, quali?

M.F: Diciamo che non ci sono stati grossi adattamenti: i termini impossibili da tradurre (in quanto troppo legati alla cultura giapponese e senza riscontro in italiano) erano veramente pochi, quindi in quei pochi casi è stata sufficiente una nota esplicativa. I maggiori interventi sono stati fatti sulle classiche espressioni giapponesi che normalmente in italiano non hanno un resa univoca (un esempio su tutti: “yoroshiku onegaishimasu”, da tradurre sempre in relazione al contesto) o su tutte quelle frasi che in giapponese erano lasciate tronche: per la diversa struttura sintattica del giapponese queste frasi restavano senza verbo (che rappresenta la parte conclusiva della frase), ma in italiano suona molto innaturale costruire una frase inserendoci il soggetto e i vari complementi senza un verbo a sorreggere il tutto, quindi con l’editor si sono vagliate un po’ di opzioni, per ricostruire quella che poteva essere l’intenzione del messaggio originale aggiungendo un verbo che potesse essere plausibile nella versione italiana. In ogni caso sono sempre stati piccoli interventi “di routine” e proprio per questo vorrei sottolineare quanto il manga de “Il cane che guarda le stelle” parli un linguaggio veramente universale.