Un libro sulla vita, sulla morte e sull’impermanenza delle cose - "Quando il cielo piove d'indifferenza" di Shiga Izumi


L’opera di Shiga Izumi Quando il cielo piove d’indifferenza (2017), pubblicata in Italia nel 2021 a cura di Veronica De Pieri, guarda agli avvenimenti relativi al triplice disastro di Fukushima e alla conseguente desolazione con sguardo certo malinconico, eppure non c’è un momento in cui lasci spazio alla rabbia: ciò che si percepisce, piuttosto, è la delusione per una promessa non mantenuta, e l’incertezza. 

I lampioni dispongono in fila la loro luce fredda; i semafori lampeggiano a ripetizione, senza senso. A mano a mano che si tinge di scuro, la città a me familiare muta volto, un volto che non avevo mai veduto. Queste sono rovine di nuova produzione.

Un cielo scuro e imperturbabile che inghiottisce negli abissi dell’oscurità una città già diventata l’ombra di se stessa, una città fantasma, come l’incombente minaccia delle radiazioni in seguito al triplice disastro nucleare di Fukushima. È questo lo sfondo della narrazione di Shiga Izumi in Quando il cielo piove d’indifferenza, nel primo racconto della raccolta. 

Yoshida Yōhei è uno dei pochi civili rimasti in città, spinto dalla responsabilità di prendersi cura della madre anziana e malata, allettata perché reduce da un ictus. L’atmosfera sembra suggerire l’idea di un tempo senza fine, di un’attesa interminabile che viene scandita dalle riflessioni del protagonista sul proprio passato, quasi a cercare consolazione nel ricordo di un tempo che non c’è più e aggrapparsi a quel ricordo come a un’ancora di salvezza in una realtà dove tutto è perduto. Yoshida recupera il ricordo dell’amica d’infanzia morta tragicamente, dei posti frequentati e dei giochi fatti insieme, in un orizzonte in cui il futuro sembra essere stato irrimediabilmente spazzato via ed è quindi importante e necessario attingere a qualcosa di recondito come i ricordi per poter resistere. E qui Yoshida si trova a riflettere sul significato e sull’assurdità della vita. 

Fin dalle prime pagine si respira un clima di disillusione e aspettative deluse ed è chiaro che il concetto di mujō è il leitmotiv principale: la transitorietà della vita e di tutto ciò che è umano è al centro dell’opera di Izumi, che per quanto si presenti come una sorta di testimonianza della tragedia dell’undici marzo, non indulge in realtà alla rassegnazione e al pessimismo: al contrario, dimostra l’importanza di trovare consolazione nel contatto e nei rapporti umani, come accade nell’incontro con Reiko, volontaria di un’associazione che porta soccorso agli animali feriti. Reiko diventa presto l’affetto più importante per Yoshida nel suo dramma: grazie a quell’incontro anche la madre, abbattuta dalla malattia e dagli avvenimenti, riuscirà a provare di nuovo qualcosa e sarà sempre Reiko ad aiutare Yōhei ad affrontare il lutto per la scomparsa della madre e a stargli vicino. La perdita viene esplorata in diverse forme: perdita in quanto lutto ma anche in quanto smarrimento di riferimenti e di stabilità, a cui segue la presa di coscienza della propria vulnerabilità e inconsistenza in quanto esseri umani. Tutto ciò si rivela in ogni piccolo gesto e riflessione del protagonista. 

Finiamo inconsciamente per dimenticarci della bellezza del mare, eppure l’anima delle persone morte affogate in quell’acqua si dissolve.

Queste sono le parole di Ito Kana, protagonista del secondo racconto contenuto nell’opera, alla quale lo tsunami ha strappato via la nonna e ha separato la famiglia, divisa dall’esodo dalle zone radioattive. Vediamo così la disgregazione sociale e familiare causata dal disastro e il tentativo di Ito di allacciare dei legami con i nuovi compagni di scuola, che sottolinea ancora una volta l’importanza del contatto umano per ricreare gradualmente una nuova quotidianità, dato che quella precedente è stata stravolta. 

La protagonista viene selezionata per girare un docufilm sulla catastrofe: così viene introdotto uno dei temi portanti di questo secondo racconto, il contrasto fra l’esperienza del trauma vissuto e la sua problematica trasposizione attraverso i media, che tendono talvolta a spettacolarizzare o comunque a offrire una visione distorta del reale: infatti, se nelle parole del copione si percepisce un’intenzione accusatoria nei confronti dei lavoratori della centrale nucleare, Ito ci fa comprendere che non ha senso iniziare una caccia alla streghe e puntare il dito verso un colpevole. Esistono tante realtà diverse e ognuno è, a modo proprio, una vittima. Proprio per questo, decide di non prendere più parte alla realizzazione del film.

La narrazione di Shiga Izumi riesce a raccogliere le prospettive di due personaggi diversi, segnati in maniera differente dal disastro nucleare ma accomunati dalla volontà di ricominciare a vivere e ricostruire la propria quotidianità lasciandosi alla spalle l’esperienza traumatica per creare un nuovo futuro.

 

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