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Superflat, Funghi e Calder: arte occidentale e Japanese Pop

3 Maggio 2015
Cristiano Montanari

Nonostante decadi di do it yourself, camp art e commistione abbiano cercato di convincerci che la separazione artificiale tra high art e arte popolare o commerciale sia destinata a svanire, è difficile negare come questa dicotomia continui a dettare legge, così che espressioni artistiche volutamente pop sono costrette a misurarsi, e a essere misurate con un apparentemente ampio, ma in realtà piuttosto rigido canone artistico prestabilito. 

Questo è ancora più vero e problematico quando si parla di arte contemporanea non occidentale, come quella giapponese: quando entra nel mercato globale, quest'ultima deve confrontarsi sia con la propria storia e tradizione nazionale (antica e contemporanea), sia con la realtà che l'Arte con la 'A' maiuscola è, a partire dal concetto stesso, un costrutto prettamente occidentale.

Una delle conseguenze di questa difficoltà è che il sistema artistico globale ha privilegiato artisti capaci di coniugare in modo relativamente inoffensivo alcuni studiati elementi autoctoni, insieme a metodi di produzione e filosofie tutto sommato non così aliene al mondo artistico occidentale. Artisti come Yayoi Kusama, Yoko Ono o Takashi Murakami hanno segnato il percorso in questo senso, stendendo un'aura di 'giapponesità' sopra opere che, a un' analisi accurata, non si discostano molto dalla produzione modernista per Kusama e Ono, più postmoderna e contemporanea per Murakami – quest'ultimo in particolare gioca molto su una retorica non solo di occidente contro oriente, ma anche di high art contro pop art, producendo però opere formalmente appetibili per il mercato dell'arte, e probabilmente studiate per il loro calcolato appeal al di fuori del Giappone.

Più suggestive commistioni tra high art e pop art, nel contesto contemporaneo giapponese, si possono scoprire guardando all'arte commerciale vera e propria, incluso il manga o, addirittura, il mondo dōjinshi: la non necessità di dovere giustificare il proprio operato come 'Arte' sembra lasciare più margine di sperimentazione agli artisti nel gestire il confine non solo tra high art e pop, ma anche tra tradizione giapponese e canone occidentale. Tra i professionisti del manga l'esempio più lampante è sicuramente quello di Usamaru Furuya, in particolare nella sua collezione di storie brevi Palepoli: ricca di riferimenti visivi e tematici agli stilemi dell'arte medievale e rinascimentale, la formazione accademica di Furuya riposiziona tale eredità accanto e insieme a elementi manga in un gioco di compenetrazione e contrasti che crea, molto più di quanto il superflat abbia saputo fare, un' estetica fresca e complessa (fig.1).

Anche il mondo dell'arte amatoriale, nonostante la sua piatta caratterizzazione come il regno di fanart, ecchi e moe, ospita un vero e proprio sottogenere di arte che si confronta, spesso in modo ironico e dissacratorio, con i classici occidentali. Tra i moltissimi esempi interessanti che si potrebbero fare, sorprendono la divertente rilettura in chiave 'fungoide' di La Libertà che Guida il Popolo di Delacroix, ad opera di Ka92 (fig. 2); o le innumerevoli reinterpretazioni della Mona Lisa, spesso ma non solo a tema parodistico. Una delle più interessanti e particolari commistioni di questo tipo rimane, a mio avviso, un dōjinshi pubblicato nel 2008 dal circolo Heikinritsu 平均律: アレクサンダー・カルダーの恋人 (L'Amante di Alexander Calder), una collezione di immagini che unisce figure femminili adolescenziali, tipiche dell'estetica dōjin, alle opere del famoso artista cinetico americano Alexander Calder (fig. 3). Il risultato, più che una parodia come nei casi precedenti, siede invece tra il tributo e l'esperimento artistico; fresco e originale proprio perché evita la tipizzazione nelle categorie moe, chibi o superflat alle quali molta high art giapponese ricorre per ricavarsi un posto, anche stereotipato, sul mercato artistico globale. Ancora una volta, i limiti di commerciabilità del dōjin e dell'amatoriale si rivelano, artisticamente, un valore aggiunto.

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