NipPop X FEFF25: “Phases of the moon” di Hiroki Ryūichi


Quando diverse linee temporali s’incrociano non è sempre facile capire cosa sia reale e cosa sia frutto dell’immaginazione.

Phases of the moon (Tsuki no michikake 月の満ち欠け) è un dramma che si sviluppa in tre epoche distinte, ognuna delle quali è connessa alla successiva da una serie di reincarnazioni, producendo un effetto “scatola cinese”. Con ciò, il regista Hiroki Ryūichi mette in scena un tema ben presente nell’immaginario asiatico: la credenza buddhista che il defunto debba attraversare una catena di reincarnazioni prima di raggiungere l’illuminazione. Ma la resa di Phases of the moon deve molto alla sapiente tecnica del suo regista, che riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo per tutta la sua (non breve) durata.

Le prime scene del film ci trasportano nel 2007, ad Hachinohe, una città portuale nel nord del Giappone, dove Osana Kei (Ōizumi Yō) lavora nel settore ittico. Successivamente, ci spostiamo nell’area di Tōkyō, dove Kei incontra una giovane donna, Midorizaka Yui (Itō Sairi) e la piccola Ruri, sua figlia. A questo punto, la narrazione rimane sospesa per consentire un viaggio a ritroso nel tempo, al 1980, quando Kei sposa la collega di università Kozue (Shibasaki Kō), con la quale avrà una figlia, anche lei di nome Ruri.

Qualche anno dopo, nel 1988, Ruri inizia a comportarsi in modo inconsueto per la sua età: fa disegni che non hanno nulla da invidiare a quelli di una vera artista, parla inglese e articola pensieri da persona adulta. Un giorno, la piccola fugge di casa per andare in un negozio di dischi, e quando viene ritrovata si rivolge al padre Kei in modo criptico, come se stesse parlando di se stessa in una vita passata.

La narrazione fa un altro salto temporale, fino al 1999, quando l’adolescente Ruri (interpretata da Kikuchi Hinako) rivela alla compagna di scuola Yui di non essere ciò che sembra. In questo tortuoso viaggio tra passato, presente e futuro si inserisce un altro filone narrativo, stavolta ambientato negli anni Ottanta: la storia d’amore tra il proprietario del negozio di dischi Misumi Tetsuhiko (Meguro Ren) e una ragazza, anch’essa di nome Ruri (Arimura Kasumi).

Giunto a questo punto dello sviluppo, lo spettatore scopre che Kozue e Ruri sono morte in un incidente d’auto e la vita di Kei, nel presente, è tormentata dal dolore del lutto. Cercando di reprimere una sgradevole sensazione di mal di mare, lo spettatore continua a muoversi avanti e indietro, tra i flutti dei vari piani narrativi, nella speranza che gli venga rivelata il prima possibile la soluzione del mistero delle reincarnazioni.

Il film si basa sull’omonimo romanzo di Shōgo Satō, che quando è uscito nel 2017 è diventato subito un bestseller. Si spera che la popolarità del romanzo non venga tragicamente interrotta dal suo adattamento filmico, e che la versione stampata possa rimanere più a lungo nel ricordo del pubblico.

Con tutta probabilità, ad accentuare la confusione tra le varie linee temporali si trova una caratterizzazione storica quasi inesistente. Se non fosse per il fatto che Tetsuhiko usa una cinepresa analogica, difficilmente si potrebbe pensare agli anni Ottanta, tantomeno si può ritenere che la fugace comparsa di un vecchio cellulare possa ricordare gli anni Novanta.

Eppure, il film di Hiroki intrattiene chi lo vede, a tratti sa essere commovente e, alla fine, riesce nel suo intento: tra colpi di scena improbabili e soluzioni narrative poco fluide, se lo spettatore abbandona le aspettative iniziali su un titolo così evocativo, le due ore del film trascorrono in modo piacevole.

In tutto ciò, le citazioni colte provenienti da opere del taglio di Anna Karenina, nonché da canzoni come Woman e Remember Love di John Lennon, stridono con i toni da telenovela, e non fanno altro che aumentare la distanza tra spettatore e storia narrata. Alla fine, ciò che emerge è una storia artificiosa, la cui finzionalità difficilmente viene accettata dallo sguardo di chi la osserva.

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