Iwai Shunji, classe 1963, è un personaggio ben noto nel panorama cinematografico giapponese: un artista poliedrico che ha lavorato in numerose produzioni per il piccolo e il grande schermo, sia come regista che come sceneggiatore, nonché come compositore delle musiche per alcuni suoi film.
Swallowtail Butterfly, pellicola del 1996 proiettata alla venticinquesima edizione della kermesse udinese, è il titolo che lo ha portato alla fama: un’opera ambientata in una Tokyo distopica, non troppo distante dalla realtà del presente, dove i personaggi si muovono ai margini della società. Il film rappresenta al meglio la cifra stilistica dell’autore, e inaugura anche la sua personale estetica, definita dalla critica come “estetica Iwaiesca”, caratterizzata ad esempio dall’utilizzo della cinepresa a mano e della luce naturale per dare maggiore intensità alle immagini.
La storia è ambientata a Yentown, nome dato alla capitale dagli immigrati che, venuti in cerca di un futuro migliore, la ribattezzano in questo modo perché lo yen è divenuta la moneta di maggior prestigio al mondo. Attratti dal sogno di arricchirsi quindi, numerosi immigrati fluiscono verso il Giappone costruendo delle grandi comunità sul territorio e stanziandosi nelle periferie della città.
La pellicola ruota attorno a un gruppo di yentown - questa volta termine anglicizzato dal giapponese “en tou” (letteralmente “ladri di yen”), usato in maniera dispregiativa dalla popolazione nativa per indicare gli stranieri - il cui perno è una ragazzina di sedici anni (Ayumi Ito) priva di nome, la quale, dopo la morte della madre, vaga in cerca di un posto in cui poter vivere. Entra così in contatto con Glico (Chara), una prostituta originaria di Shanghai che è arrivata in Giappone insieme ai suoi due fratelli. Una storia che narra il percorso di crescita della protagonista e delle sue amicizie, tra scorribande e attività illecite, intrecciando quindi elementi del crime con quelli della distopia, in un quadro stratificato dove si respira un’atmosfera di costante coercizione e marginalizzazione e che fa da sfondo alla quotidianità dei personaggi.
Il tema focale della storia è sicuramente quello della libertà, e già il titolo risulta evocativo e simbolicamente denso. Infatti, Ageha è il nomignolo che viene affibbiato alla protagonista da Glico, ovvero il termine giapponese per riferirsi proprio alla “farfalla a coda di rondine”, una iconografia che viene ripresa più volte nel corso dell’opera ed è anche impressa sulla pelle delle due protagoniste. L’immagine rappresenta da una parte la volontà di districarsi dalle maglie della società e dall’altra la metamorfosi di Ageha che passa dall’adolescenza - lo stadio del bruco - all’età adulta.
L’opera di Iwai Shunji, seppur distribuita per la prima volta sul grande schermo nel 1996 - cioè per una sorta di amara ironia negli anni in cui il paese entra nella fase di stagnazione economica a seguito dello scoppio della bolla speculativa degli anni ’80 - appare ancora oggi molto attuale. La distopia narrata all’interno del film - che tuttavia non è incasellabile in un genere specifico - è infatti di grande impatto non solo per il taglio contestualizzato a quegli anni, ma anche per come viene percepita l’alterità - lo straniero - nella contemporaneità.
Tuttavia, per quanto le condizioni di vita sembrino agli estremi, laddove vengono presentate anche alcune scene di una violenza xenofoba disarmante, la speranza sembra essere comunque la lecita conclusione che il regista ha voluto lasciare ai suoi spettatori.
Si tratta, dunque, di una distopia dove lo scarto con il reale non è ampio: non si colloca infatti in un passato lontano da noi o in un futuro inavvicinabile, ma è una congettura alternativa alla realtà, che si muove silenziosamente e nell’ombra, proprio ai limiti dell’umanità. Un’opera che apre a diverse riflessioni su questioni che ora più che mai sono centrali per il Giappone contemporaneo e non solo, quali il razzismo, la segregazione sociale e l’immigrazione.
Un’altra nota sicuramente interessante questa volta della sceneggiatura è la scelta di donare ai personaggi maggiore agency e una vitalità non da poco, anche se si ritrovano incasellati in un contesto di marginalità strutturale ed endemica. Infatti, l’amicizia che si crea tra i diversi personaggi e il conforto che si danno sono puri, come una sorta di luce capace di penetrare anche all’interno degli ambienti più angusti.
La visione del film, dalla lunghezza considerevole, è comunque molto avvincente e coinvolge lo spettatore grazie alla regia: l’ottimo utilizzo della macchina da presa e le inquadrature realizzate con la camera a mano sono la cifra caratterizzante dello stile del film.
Una menzione inoltre merita ovviamente il comparto sonoro, che si esprime in un’attenta rappresentazione della realtà dove il linguaggio utilizzato dai personaggi risulta essere una creolizzazione tra l’inglese, il giapponese e il mandarino. In aggiunta, la musica e le canzoni che ricorrono non sono solo elementi di contorno al film, ma sono funzionali e sinergiche rispetto al susseguirsi degli eventi. My way di Sinatra diventa la colonna sonora portante e l’interpretazione magistrale di Chara - nelle spoglie del personaggio di Glico - assieme alla Yentown Band convoglia con grande capacità espressiva una sensibilità che buca lo schermo e trasporta lo spettatore nel mondo stratificato di una società intrinsecamente discriminatoria.