Dopo il suo documentario Citizen Kitano, presentato al FEFF24, Yves Montmayeur torna a parlare di cinema nipponico, ma questa volta concentrandosi su uno dei generi più famosi al di fuori del Giappone: il J-Horror. Veniamo introdotti al film lentamente, attraverso l’esplorazione notturna di un edificio abbandonato, mentre una medium e fotografa di fenomeni paranormali giapponese ci racconta di strani episodi accaduti in quel luogo in precedenza. Tramite queste storie legate anche alle sue doti da sensitiva e alle strane figure comparse nelle sue fotografie, lo spettatore ha tutto il tempo di calarsi completamente nella narrazione che lo porterà alla scoperta di opere e leggende horror giapponesi.
Da qui passiamo poi alla testimonianza di Kurosawa Kiyoshi, regista di Cure, l’horror giapponese che a fine anni Novanta ha dato il via alla corrente del J-horror, ancora oggi così prolifica. Il regista ci racconta della sua esperienza con il soprannaturale, racconti che legano come un filo rosso quasi tutti i protagonisti del documentario. Leggende che, come spiega la studiosa nei primi minuti di film, permeano la cultura giapponese e sono vicine a ognuno fin dall’infanzia quando, facendo riferimento soprattutto ad Hanako-san, fantasma che si dice infesti la terza cabina della toilette delle bambine nelle scuole elementari del paese. Ma anche altri registi come Nakata Hideo e Shimizu Takashi, oltre a raccontare delle loro ispirazioni e degli espedienti messi in scena per spaventarci nei loro film, si aprono al regista e allo spettatore condividendo le proprie esperienze con spiriti e fantasmi. Qualcuno urla, altri rimangono pietrificati in uno stato di confusione nel quale si chiedono cosa sia successo, se abbiano davvero visto un fantasma o sia solo suggestione.
L’immagine che popola più comunemente le leggende di fantasmi giapponesi e che diventa protagonista di film, manga e anime è una donna in bianco dai lunghi capelli neri e il viso pallido:da Ring a Ju-on: The Grudge, e ancora andando indietro nel tempo fino a Kwaidan di Kobayashi Masaki e a Onibaba di Shindo Kaneto. Da questo immaginario attingono anche mangaka come Umezu Kazuo e Junji Itō, che rielaborano miti e leggende per creare nuove storie del terrore. La figura femminile sembra essere sempre al centro di questo tipo di narrazione: abbandonata, uccisa, tradita, sotto forma di donna-gatto, serpente o con una mascherina per coprire la bocca tagliata.
Ancora oggi il Giappone non smette di credere ai suoi fantasmi e queste figure spettrali continuano ad infestare strade, palazzi e appartamenti, talvolta avvistati tra la folla, oppure nel silenzio di una via poco illuminata. Che si tratti di storie vere o semplice suggestione non è dato sapere, ma rimane incredibilmente affascinante il forte legame che il paese del Sol Levante ha con l’aldilà.
Tuttavia, non tutti credono alle storie di fantasmi, come ci raccontano Maro Akaji, ballerino di Butoh, o artisti come Fuyuko Matsui. In questi casi si prende ispirazione dalle leggende, dai fantasmi, per creare un movimento, una danza, per suggerire un’emozione o metterla su tela. Fuyuko, invece, rende partecipe lo spettatore della sua esperienza nella foresta di Jukai, dove ha passato tre notti in tenda, così da concepire poi alcune opere ad essa ispirate. In Kaidan. Strange Stories of Japanese Ghosts il regista più che raccontare una storia raccoglie testimonianze, mettendole in scena senza soluzione di continuità, e intrecciandole tra loro per delineare i confini e le origini del J-horror. Attraverso questi racconti lo spettatore non solo viene introdotto al genere, ma riesce a farsi un’idea anche di come in Giappone i racconti dell’orrore siano presenti nella società fin dall’infanzia: leggende diffuse tra i banchi di scuola, anime, manga e poi il cinema contribuiscono alla diffusione di questo immaginario orrorifico.