Il visual kei è solo giapponese?

Una rubrica tutta dedicata al visual kei, a cura di Stefania Viol.

Con l’ingresso nel nuovo millennio, la diffusione di internet e il boom internazionale di manga e anime, il visual kei ha cominciato a guadagnarsi una certa popolarità all’estero.

Una delle conseguenze dell’espansione al di fuori del Giappone è la nascita di band indie occidentali che si ispirano a questo movimento: gli spagnoli Pinku Jisatsu, i francesi GaïdjinN, gli italiani DNR, gli svedesi Sai e YOHIO e i tedeschi CINEMA BIZARRE sono solo alcuni dei gruppi nati dall'incontro con la tradizione giapponese. Tutti questi musicisti sono direttamente ispirati al visual kei, presentano delle estetiche molto simili, se non identiche, a quelle dei loro modelli asiatici, scelgono degli pseudonimi giapponesi e, talvolta, arrivano a scrivere parte dei testi nella stessa lingua. Inoltre, alcuni studiosi evidenziano delle possibili influenze del movimento anche su artisti di fama internazionale non apertamente legati a tale fenomeno: è il caso ad esempio di Lady Gaga, famosa per il suo stile molto provocatorio e trasgressivo, e dei TOKIO HOTEL, il cui frontman Bill Kaulitz si caratterizza per un'immagine androgina. La comparsa di questi artisti stranieri, che a volte si proclamano visual kei, altre vengono solo considerati il prodotto di un'influenza passiva, apre un dibattito tutt'ora privo di risposta: il visual kei è un movimento esclusivamente giapponese?

La vaga e generica definizione del fenomeno non offre nessun appiglio per la classificazione e l'esclusione di queste band. Il “forte impatto visivo”, unico aspetto fondamentale per questo tipo di artisti, è molto soggettivo e vago, e può arrivare a inglobare anche gruppi rock stranieri, come i KISS e Marilyn Manson, che però non sono mai stati considerati visual kei. In effetti, l'immagine complessiva di questi artisti è piuttosto diversa dall'aura presentata dai musicisti giapponesi, ma non si può dire lo stesso delle band nate sotto l'influenza diretta del movimento: questi giovani artisti elaborano la propria estetica sulla base di quelle proposte nel Paese del Sol Levante, nel tentativo di emularne lo stile e avvicinarsi a quel modello. Tuttavia, come afferma Kaytea Miyagi, musicista statunitense che ha lavorato anche nell’ambiente visual kei giapponese, “è una scena peculiare del Giappone e, indipendentemente dalla popolarità all’estero, può essere emulata solo fino ad un certo punto dai fan stranieri, prima di smettere di essere visual kei e diventare stile gotico, punk ecc”.

La corporatura esile e i lineamenti morbidi dei giapponesi rendono più facile l'elaborazione delle figure di bellezza androgina peculiari del movimento, che talvolta i musicisti occidentali non riescono a ricreare a causa delle loro caratteristiche fisiche, nonostante l'utilizzo dei medesimi costumi e trucco. Inoltre, il movimento è strettamente legato ad altre manifestazioni della cultura giapponese, dal sentimento del mono no aware al più popolare manga, che riemergono più o meno intenzionalmente nel fenomeno e che non sempre dei musicisti nati e cresciuti in un contesto socio-culturale molto lontano sono in grado di cogliere e far rivivere nella propria attività. Infatti, puntando sui retaggi della tradizione presenti nel visual kei, MIYAVI afferma che il “il Jrock è una forma originale di cultura giapponese”: una visione sicuramente estremizzata del fenomeno che tiene troppo poco conto delle fondamentali influenze del rock occidentale. Più equilibrata è l’opinione di Isshi dei Kagrra, che, dando il giusto peso anche al ruolo giocato da quest’ultimo, commenta: “L’utilizzo di make up e costumi stravaganti era inizialmente dovuto a un’influenza esercitata dalle band rock americane. Successivamente abbiamo reinterpretato questi elementi a modo nostro, creando il visual kei ”. Totalmente diversa è la posizione di ShuU, membro dei girugämesh, il quale non pone nessun accento sulla giapponesità del movimento: “il visual kei è nato dal glam rock di band come i KISS e Marilyn Manson. Se si cominciano a chiamare ‘visual kei’ anche le band straniere, diventa molto difficile tracciare una linea di confine.”.

Nonostante la sua interpretazione del visual kei veda preponderante l'influenza occidentale, il musicista sembra sottintendere che questa etichetta dovrebbe essere riservata ad artisti giapponesi, se non altro per evitare i dibattiti che naturalmente sorgono vista la genericità della definizione. D’altra parte, i fan giapponesi si dimostrano aperti nei confronti dei gruppi stranieri, accogliendo di buon grado anche artisti occidentali che si ispirano al fenomeno. Jimi Aoma, musicista americano ex bassista del gruppo visual kei giapponese Chemical Picture, racconta che la maggior parte delle critiche da lui ricevute per il fatto di essere straniero arrivavano da parte di fan occidentali. L'esperienza di Aoma trova conferma in un sondaggio pubblicato sul sito web JaME: solo il 53% dei fan stranieri si dichiara disposto ad ascoltare un gruppo visual kei non giapponese. E il 47% degli utenti non si è limitato a dire che non ascolterebbe mai una band visual kei straniera, ma ha anche lasciato dei commenti piuttosto duri: ad esempio, un ragazzo italiano ha affermato che “il visual kei è giapponese. Le band straniere che si spacciano per tali sono ridicole.”.

La questione rimane aperta e non sembra possibile raggiungere una soluzione dati i pareri contrastanti di artisti, critici e pubblico. Tuttavia, è possibile affermare che il visual kei è un movimento giapponese in quanto nato e sviluppatosi in quel contesto socio-culturale e attivo principalmente in Giappone, il che non esclude la possibilità di un’espansione dell'etichetta a inglobare band straniere che presentano un'estetica conforme a quella dei musicisti “originali” del filone.

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