7 utensili che puoi trovare in una cucina giapponese e la loro storia


Quali sono gli utensili che hanno reso la preparazione della cucina giapponese uno dei patrimoni immateriali dell’umanità dell’UNESCO nel 2013? Sebbene la coltelleria giapponese abbia una lunga e nota tradizione, la storia di altri strumenti della gastronomia del Sol Levante non è ancora altrettanto diffusa.


Quali utensili sono indispensabili se volete preparare dei piatti giapponesi? I giapponesi hanno sempre usato le bacchette? In questo articolo ripercorreremo la storia di 7 utensili giapponesi, a cominciare dalle più conosciute bacchette!

1. Bacchette: saibashi e hashi
Le bacchette sono diffuse in tutta l’Asia orientale, con alcune differenze di forma e dimensioni a seconda del paese. Vi sono innanzitutto due tipi di bacchette giapponesi: le bacchette usate per il pasto, gli hashi (箸), e le bacchette usate per cucinare, i saibashi (菜箸; さいばし). Le bacchette usa e getta, invece, sono i waribashi.

Saibashi: bacchette usate per cucinare
 

I saibashi sono più lunghi rispetto alle bacchette utilizzate per portare il cibo alla bocca. La lunghezza è solitamente di 30 cm e serve per proteggere le mani dal calore o dagli eventuali schizzi di olio. I saibashi sono solitamente fatti di bambù, oppure sono in metallo se usati per la frittura.
Gli hashi sono più corti rispetto alle altre bacchette diffuse in Asia (17 cm circa, rispetto ai 25 cm delle bacchette cinesi). La punta è arrotondata e molto fine, spesso con degli intagli per evitare che il cibo scivoli. Le bacchette giapponesi sono fatte di legno o bambù e le più pregiate si contraddistinguono perché sono laccate. Inoltre, si possono trovare bacchette più corte per le donne o per i bambini, e ogni membro della famiglia ne possiede un paio personale.

Illustrazione della differenza tra bacchette cinesi e giapponesi

Oggi le bacchette laccate più famose si producono nella città di Obama, nella prefettura di Fukui, anche se le bacchette usa e getta sono quelle più diffuse. Si stima, infatti, che in Giappone ne vengano usate 24 miliardi di paia all’anno (molto meno rispetto ai 45 miliardi della Cina). La Cina è oggi il maggior produttore: il 90% delle bacchette monouso in Giappone sono fabbricate in Cina. A causa dei rischi ambientali legati alla deforestazione, la Cina ha introdotto nel 2006 una tassa del 5% sull’esportazione.

Bacchette giapponesi laccate

Storia delle bacchette
Le bacchette nascono in Cina e vantano una storia di 3000 anni. L’uso di bacchette d’avorio è documentato a partire dalla dinastia Shang (1100 a.C.), gli esperti ritengono, però, che quelle di legno fossero diffuse già 500-1000 anni prima, anche se non vi è nessuna documentazione ufficiale.
Le più antiche bacchette ritrovate provengono dal sito archeologico di Yin Xu: si tratta di 6 bacchette di bronzo che risalgono al 1200 a.C. Si ritiene che fossero usate inizialmente per cucinare, e solo a partire dal 200 a.C., durante la dinastia Han, abbiano iniziato a essere utilizzate per mangiare.
La prima documentazione ufficiale dell’esistenza delle bacchette in Giappone si trova nel Kojiki, la più antica cronaca del paese, scritta nel 712 d.C. Il loro utilizzo era inizialmente riservato solo alle cerimonie, in quanto si riteneva che le bacchette fossero oggetti sacri. Le prime erano unite in cima e solo dal 1000 d.C. divenne comune separarle.

Bacchette cinesi antiche, in argento e unite da una catena


Edward Wang, nel suo libro Chopsticks, sostiene che l’utensile principale in epoca antica era il cucchiaio. Il cereale più diffuso infatti era il miglio, in genere cucinato come un porridge, che ne rendeva necessario l’uso. L’introduzione delle bacchette si deve invece all’introduzione di preparazioni quali stufati e zuppe. Le bacchette erano più adatte per questi piatti, perché permettevano di afferrare le verdure più efficacemente.
Il primato del miglio sulle zuppe spiega perché inizialmente le bacchette venissero usate solo come utensile supplementare. Con l’introduzione del grano e dei piatti derivati (ramen e ravioli), le bacchette divennero il più importante e utilizzato strumento per portare il cibo alla bocca.

2. Donabe

Donabe, pentola di terracotta
 

Il donabe è una pentola di terracotta usata per cucinare a fiamma viva. Naoko Takei Moore, autrice del libro Donabe: Classic and Modern Japanese Clay Pot Cooking, ne ripercorre la storia. Il donabe nasce nella provincia giapponese di Iga, la cui argilla è particolarmente porosa. La porosità di questa terracotta fa sì che il calore venga trattenuto. Un piatto cucinato col donabe risulta dunque molto più saporito, data la lenta cottura. I piatti cucinati con questa pentola, inoltre, sono spesso pietanze da condividere come lo shabu shabu, oppure il chankonabe (piatto consumato tipicamente dai lottatori di sumo).
Il donabe fa parte del vasellame di terracotta prodotto nella regione di Iga già nell’ottavo secolo, ma si diffuse solo nel 1700. La regione Iga in tempi lontanissimi era il letto del lago Biwa, e da qui deriva l’argilla per la produzione dei donabe e di altre forme. L’argilla di questa regione è molto resistente al calore, per cui il vasellame viene cotto in una fornace sotto terra per 3 giorni.

Sempre a Iga la famiglia Nagatani produce artigianalmente donabe da 8 generazioni, ovvero dal 1832. L’azienda Nagatani-en propone anche workshop e mostre.

3. Tamagoyaki nabe

Padella usata per il tamagoyaki
 

Il tamagoyaki nabe (たまごやきなべ) o anche makiyakinabe è indispensabile per la preparazione del bentō o della colazione. Solitamente sono fatti di alluminio, ma per i professionisti sono di rame. La forma e le dimensioni variano da regione a regione. Queste padelle rettangolari sono particolarmente famose per il tamagoyaki, un’omelette giapponese quadrata. Il tamagoyaki oltre a essere un ingrediente fondamentale del bentō (contenitore per pasti pronti), è anche uno dei principali ingredienti per il sushi.
La storia del tamagoyaki nabe è strettamente collegata a quella del tamagoyaki e, a differenza degli altri utensili di cui parliamo in questo articolo, è molto recente. Questo perché per la preparazione della popolare frittata servono zucchero e mirin (vino dolce di riso), ingredienti molto costosi fino alla fine del 19° secolo.
I giapponesi, inoltre, non erano soliti mangiare le uova. Fu il governo negli anni ’50 a incoraggiare il consumo di proteine, e per questo il prezzo delle uova calò. Da quel momento il tamagoyaki divenne un piatto standard e a oggi è impossibile non trovare un tamagoyaki nabe in una cucina giapponese.

4. Bentō
I bentō (弁当) sono dei contenitori porta-pranzo, solitamente preparati in casa, oppure preconfezionati. La parola indica sia il pasto da asporto, usato a partire dal 13° secolo, sia il contenitore, utilizzato dal 16° secolo. L’etimologia della parola bentō non è univoca: alcuni sostengono che derivi dalla parola 便当 (biàndāng), in dialetto cinese, che significa “conveniente”. Altri attribuiscono l’origine termine a Oda Nobunaga, che nel 16° secolo avrebbe distribuito i bentō nel suo castello.
Al di là del termine, l’uso del bentō risale al periodo Kamakura (1185-1333): gli agricoltori e i guerrieri usavano mettere il riso cotto e seccato, detto hoshi-ii, in sacche da portar con sé. Il bentō per come lo conosciamo oggi, invece, risale al 16° secolo: durante questo periodo si inizia a portare il cibo in scatole di legno laccate durante lo hanami (usanza giapponese del guardare la fioritura primaverile) oppure durante le cerimonie del tè all’aperto. Nel secolo successivo i bentō divennero molto popolari: risale infatti a questo periodo la creazione del makunouchi, un bentō tradizionale che continua a essere ancora oggi una delle preparazioni più popolari.
Con l’avvento delle ferrovie alla fine del 19° secolo, nacque poi lo ebiken, un tipo di bentō legato alle tradizioni culinarie locali e tipicamente venduto nelle stazioni dei treni. Fino a questo periodo i bentō erano soliti essere di legno, laccato oppure no. All’inizio del 20° secolo l’alluminio divenne invece il materiale più utilizzato, almeno per qualche decennio, fino a quando la plastica ottenne il primato. Negli anni ’80-’90 si assiste a una nuova ondata di popolarità dei bentō grazie ai kyaraben. Nei kyaraben il cibo prende la forma di animali e personaggi di cartoni animati o videogames: le pietanze vengono accuratamente preparate per risultare visivamente appetibili.

5. Shamoji

Shamoji decorati
 

Lo shamoji è un utensile usato per preparare e servire l’ingrediente principale della cucina giapponese: il riso. Questo utensile è tradizionalmente fatto di legno o bambù. Dato che il riso giapponese è più glutinoso e vischioso, ora si è soliti utilizzare uno shamoji di plastica con dei rilievi arrotondati che ne facilitano l’uso.
L’invenzione a fine ‘700 dello shamoji viene attribuita a un monaco buddista, Seishin. Questi avrebbe sognato una divinità di origine indiana, Benzaiten, che teneva in mano un liuto tradizionale giapponese. Il monaco avrebbe scambiato il liuto per un cucchiaio, portando alla creazione dello shamoji nella cittadina di Miyajima.
Miyajima è oggi popolare per i suoi shamoji di legno, usati più come souvenir e portafortuna che come utensile. Miyajima detiene anche lo shamoji più grande del mondo: fatto di legno di Zelkova vecchio di 270 anni, è lungo 7,7 m e pesa 2,2 tonnellate.

Shamoji gigante di Miyajima
 

Lo shamoji aveva tradizionalmente una funzione cerimoniale: la suocera dava il benvenuto alla nuora donandole uno shamoji. In questo rito di passaggio lo shamoji era un simbolo, donandolo alla nuora la suocera le cedeva le redini della casa, e quindi della famiglia.

6. Chasen

Chasen, usato nella preparazione del tè matcha
 

Il chasen è un utensile di bambù usato unicamente nella preparazione del tè matcha. Il matcha è tè verde ridotto in polvere: a differenza degli altri tè, che si preparano per infusione, si prepara mischiando il tè nell’acqua calda. Secondo Voltair Cang il chasen e il matcha stesso costituiscono gli elementi fondamentali del chado, la cerimonia del tè.
Il chasen viene costruito artigianalmente intagliando la forma da una singola canna di bambù. Quella dei chasen è riconosciuta come un’arte artigianale del Giappone, il cui centro è nel distretto di Takayama, nella città di Ikoma. I chasen prodotti da questa regione costituiscono i 90% di tutti i chasen prodotti in Giappone.

Produzione artigianale di chasen
 

La tradizione della cerimonia del tè esiste in Giappone dal 12° secolo: originariamente il matcha si mischiava con un cucchiaio di legno. Nel 16° secolo si cominciò a produrre uno strumento specifico, il chasen appunto. Bisogna, tuttavia, considerare che strumenti simili al chasen venivano usati già dal 12° secolo in Cina e nei tempi buddisti, secondo le cronache antiche.
Si ritiene che il monaco buddista Shuko Murata abbia commissionato per primo la creazione del chasen per l’uso esclusivo nella cerimonia del tè. Shuko aveva infatti sviluppato una cerimonia più “modesta”, per la quale il tè matcha era particolarmente adatto. Gli studiosi credono che Shuko si sia rivolto a un altro monaco, Sozei, per la fabbricazione del chasen.
Sozei era il figlio di un nobile samurai che possedeva un castello a Takayama: la sua famiglia avrebbe quindi monopolizzato la produzione dei chasen e dato via all’arte artigianale di Takayama come la conosciamo oggi. Bisogna sottolineare, però, che non vi sono documenti ufficiali che attestino che Shuko si sia rivolto effettivamente a Sozei.
La fabbricazione di questo utensile era talmente pregiata che anche quando le terre dei samurai di Takayama vennero confiscate, comunque la produzione di chasen continuò. Inoltre, erano gli stessi capi militari a promuovere la cerimonia del tè e a collezionare gli utensili usati nel chado. Oggi, tuttavia, questa produzione artigianale è a rischio. In Cina vengono infatti prodotti chasen molto simili, con manodopera e bambù cinese a un costo inferiore, ma anche di qualità meno pregiata.

7. Ceramiche

Un servizio in ceramica
 

Il Giappone usa come materiale principale per gli utensili di uso domestico il legno: la produzione di ceramica è generalmente riservata al vasellame per la cerimonia del tè. Sebbene la produzione di oggetti in ceramica abbia inizio dall’era Jomon, 13 mila anni fa, diventa un’arte prospera solo durante il periodo che va dal 700 al 1500, grazie all’importazione di tecniche dalla Cina.
Nel 1223 il vasaio Kato Shirozaemon andò in Cina per studiare le tecniche di fabbricazione di ceramica. Durante la dinastia Song nell’estetica cinese prevaleva la semplicità, ideale mutuato nella produzione ceramica giapponese, anche se con stili diversi. Shirozaemon ritornò in Giappone e a Seto diede il via a una ricca produzione che porterà il distretto a ospitare ben 200 fornaci e a simboleggiare ancora oggi la produzione di ceramica.
La ceramica veniva usata per creare le più disparate forme, ma nel 15° secolo lo sviluppo dell’arte della cerimonia del tè fece sì che venisse destinata in particolare alla produzione di oggetti domestici, come teiere e utensili per la preparazione del tè. Alla fine del 16° secolo, il capo militare Toyotomi Hideyoshi, dopo aver invaso la penisola coreana, portò in Giappone degli artigiani coreani perché insegnassero ai giapponesi la loro tecnica.
Nel 1616 grazie a Ri Sanpei si produce per la prima volta in Giappone, nella città di Arita, la porcellana. Le porcellane di Arita sono oggi note come Imari, dal nome del porto da cui venivano esportate. Nello stesso periodo si sviluppa anche l’arte della decorazione a smalto, anche se in Giappone resta popolare la ceramica non smaltata e cotta ad alta temperatura.

Un set per il sake fatto di ceramica di Arita
 

Con l’inizio del 20° secolo questa produzione artigianale rischiò di subire un arresto a seguito dell’occidentalizzazione del paese, e ancor di più durante la guerra. Dagli anni ’60 però la ceramica è ritornata in auge, anche grazie alla protezione del governo.
Nella lunga tradizione della ceramica giapponese vi sono due evidenti tendenze: da un lato la creazione degli utensili per la cerimonia del tè dall’estetica semplice, secondo i principi zen; dall’altro una ricca produzione di porcellana dalle decorazioni complesse e raffinate.

 

  • 1