NipPop x FEFF26 - “Typhoon Club”: nell’occhio del ciclone.

 


Sei ragazzз si lanciano in una danza sfrenata, nudз, sotto l’acqua di un tifone che sferza la campagna: uno sfogo quasi animalesco della gioventù. È il 1985 quando Sōmai Shinji dirige Typhoon club, la pellicola più caotica e spiazzante che ci ripresenta quest’anno il Far East Film Festival 26 all’interno del loro ciclo di retrospettive. 

 

Sōmai Shinji, conosciuto all’estero per Wait and See (Ah, haru, 1998) e Moving (Ohikkoshi, 1993), quest’ultimo presente anch’esso al FEFF 26, è stato un prolifico regista che, nella sua breve carriera, ha realizzato ben tredici pellicole. Attivo principalmente durante gli anni Ottanta e Novanta, Sōmai fu una boccata d’aria fresca che riuscì a rinvigorire il cinema giapponese, ormai in piena crisi. Venuto a mancare nel 2001, la sua eredità stilistica rimane ancora oggi celebrata in Giappone, ma largamente sottovalutata al di fuori dei confini nazionali. Così il Festival di quest’anno ha deciso di omaggiare Sōmai con un piccolo angolo dedicato a due sue pellicole restaurate in 4K. 

I suoi film si distinguono per il focus narrativo sulle vite di giovani e giovanissimз: ogni suo lungometraggio spiazza lo spettatore con la comicità che si intreccia, inesorabilmente, con il dramma e la tragedia, il terrore e il grottesco. Uno degli esempi più efficaci è proprio Typhoon Club, la cui trama potrebbe risultare banale nelle mani di un altrə autorə. 

Un tifone si sta avvicinando alla cittadina di Saku, nella prefettura di Nagano, e sei ragazzз, rispettivamente due ragazzi e quattro ragazze fra i quattordici e i quindici anni, rimangono intrappolatз nella loro scuola per l’intera nottata. Un riassunto forse un po’ scarno del film, ma che mostra come Sōmai riesca a creare opere d’impatto anche con poco. 

Il film vanta una struttura a segmenti molto netta: l’arrivo del tifone è preannunciato, come un presagio funesto, e l’intera pellicola segue le giornate che portano proprio al suo arrivo, dal giovedì al lunedì successivo. Inizialmente lo spettatore viene illuso dalla rappresentazione dello spaccato di vita in una campagna che sembra sconfinata, verde, piena, presente, ma mai nostalgica. Man mano che si avvicina la notte del tifone, fra il sabato e la domenica, il ritmo diventa sempre più confuso, caotico, e i personaggi sempre più irrazionali ma anche, in un certo senso... bizzarri.

Proprio come il sopraggiungere del tifone, il cast si trasforma da placido a quasi bestiale, rappresentando il tumulto emotivo e l’irrazionalità giovanile nei suoi estremi. Non solo, i personaggi adulti diventano assenti, inaffidabili, lontani e in alcuni casi ci si potrebbe domandare se siano mai esistiti: alcune scene mostrano case con solo figli, e “mamma” e “papà” diventano parole vuote dedicate ad ombre che esistono in uno spazio esterno alla realtà dei protagonisti. 

Creando un gioco di specchi fra scene comiche e drammatiche, Sōmai mostra l’innocenza dell’infanzia mescolata all’arrivo della consapevolezza adulta: esemplare è proprio la scena di due delle giovani protagoniste intente a parlare dell’imminente morte della nonna di una delle due, mentre, sullo sfondo, un’altra loro compagna sta danzando, voutamente indifferente al dramma in atto, in abiti colorati e parrucca. 

La pellicola ci propone anche scene dal gusto quasi horror che creano un disagio catartico interrotto, come la lunghissima sequenza in cui uno dei ragazzi, intrappolati nella scuola, bracca una delle quattro giovani, come in uno slasher movie, mettendola all’angolo per strapparle la camiciola scolastica di dosso. Questa potrebbe sembrare una scena di violenza (quasi sessuale, per la posa in cui versa la ragazza nel momento clou e il fervore con cui accade), fine a sé stessa. Invece, Sōmai riesce a utilizzare il detto-non detto per rimandare a scene precedenti, rivelatorie di traumi subiti dal ragazzo e del ciclo della violenza in cui si ritrova, di come questo si rifletta sul suo stato psicologico per portarlo a una vera e propria crisi di brutalità estrema.

La cinepresa che segue i giovani attori sembra un occhio voyeuristico che spia queste giovani vite da giudicare, da dissezionare. Spesso, vediamo proprio un movimento di macchina tremolante, come a sottolineare il coinvolgimento attivo del pubblico in quello che Sōmai decide di raccontare. All’interno dell’occhio del ciclone, la razionalità viene meno: Typhoon Club potrebbe essere descritto come una storia dagli archi narrativi distruttivi.

Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica e la pellicola mostra ancora una filmografia acerba, con anche alcuni errori di direzione degli attori. Sicuramente la lunghezza (115’) non aiuta con il ritmo, creando a volte dei momenti di effettivo nonsense che rischiano di distrarre dalle tematiche presentate, piuttosto che aggiungervi qualcosa: tagliando i soliti quindici minuti (consiglio che molti più registз dovrebbero seguire), si sarebbe potuto avere un ritmo più incalzante e conciso. 

Tuttavia, le critiche tecniche lasciano il tempo che trovano. Il film regala un’esperienza unica e perturbante, che rimarrà con lo spettatore anche dopo il finale.