Tre ragazzi, tre vite legate da una sola passione: la boxe. Tre storie diverse che si intrecciano all’interno di una piccola palestra di pugilato a Tokyo. Urita, chiamato da tutti ‘Uri-boy’, nutre una profonda passione per questo sport, ma nonostante la sua tecnica sia impeccabile sembra avere poca fortuna: in tutta la sua carriera ha vinto solo e soltanto due match. Ogawa è amico di Urita sin dai tempi della scuola, ed è proprio attraverso di lui che si è avvicinato alla boxe e ha iniziato la carriera da professionista, arrivando a un soffio dalla vittoria al campionato nazionale. Ma proprio quando il sogno è così vicino, qualcosa si incrina: Ogawa inizia ad avere frequenti emicranie e vuoti di memoria, e la sua carriera è a rischio. Infine, Narasaki: un ragazzo con scarso carisma e con poco successo con le ragazze, che inizia a frequentare la palestra per “sembrare un lottatore, non per gareggiare sul serio”, ma che poi scopre di avere abbastanza talento da diventare un professionista.
In Blue (ブルー), Yoshida Keisuke sceglie di prendere le distanze dai classici film puramente celebrativi della boxe, raccontandoci anche i lati più oscuri di questo sport con uno sguardo disincantato e pieno di realismo. Il regista, che ha praticato pugilato per quasi trent’anni, non esita a mostrarci quali possono essere i danni cerebrali permanenti per gli atleti professionisti: perdita di memoria ed equilibrio, ma anche demenza precoce. Nonostante ciò, l’amore per questo sport traspare anche nei momenti più cupi, anche quando si è stati sconfitti per l’ennesima volta.
Ritorna anche qui, quindi, un tema cardine della cultura e letteratura giapponese sin dall’epoca classica, quello della “nobiltà della sconfitta”: per quanto Urita sia considerato da tutti un perdente, un illuso, qualcuno che dovrebbe lasciar perdere la boxe e trovarsi “un lavoro vero” (come gli consiglia una signora di mezza età che va ad allenarsi la mattina con le amiche), ai nostri occhi appare come un personaggio nobile. È vero che Uri-boy non vince da anni, ma è lui che guida e istruisce i principianti che arrivano nella piccola palestra, avendo cura di insegnare loro i fondamentali. È lui che sprona gli altri atleti, ed è lui a incoraggiare Narasaki a provare a combattere sul serio su un ring: Urita è il collante di quella piccola comunità che si è formata all’interno della palestra.
È anche questo richiamo esplicito alla tradizione letteraria giapponese ad allontanare ancora di più Blue dai classici blockbuster americani sulla boxe: anche se Urita ammette la sua sconfitta e la sua debolezza, il suo è un personaggio che ci viene presentato come positivo.
La domanda che sorge spontanea è: perché Uri-boy non vince? Se conosce così a fondo la boxe e le sue tecniche, se è in grado di insegnare e allenare futuri professionisti, se sono anni che prova a farsi un nome in questo mondo … cos’è che lo trattiene? Cos’è che lo fa rimanere perennemente nell’angolo blu del ring, quello riservato allo sfidante e non al campione in carica? È questo anche uno dei punti cardine del film, che fornisce diversi indizi ma non dà una risposta precisa, lasciando allo spettatore libertà di interpretazione.
I primi piani, stretti sul volto, dominano la narrazione, mostrandoci le emozioni più recondite dei protagonisti in diversi momenti, dentro e fuori dal ring. Una regia quasi claustrofobica, che impedisce anche a noi spettatori di sfuggire a quei sentimenti e a quelle sensazioni dai quali anche Urita, Ogawa, e Narasaki non possono scappare e con i quali dovranno, prima o poi, fare i conti.
Una storia di formazione e maturazione, quindi, anche se per certi versi un po’ atipica. Una storia che ci ricorda che non importa quante volte veniamo colpiti, quante volte veniamo buttati a terra, l’importante è rialzarsi e andare avanti. Un chiaro richiamo anche a quello che è lo slogan dell’edizione del festival di quest’anno, l’edizione della riapertura: Moving forward.