Japanese Heels – I piaceri del gusto: Ogawa Ito e il ‘gourmet boom’

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

Food looks like an object but is actually a relationship, and the same is true of literary works. (T. Eagleton, 1998)

Ringo, la protagonista di Il ristorante dell’amore ritrovato (食堂かたつむり – Shokudō katatsumuri, 2008) di Ogawa Ito, una sera, terminato il proprio turno nella cucina di un ristorante turco di Tokyo, rientra nel minuscolo appartamento che divide con il fidanzato per trovarlo desolatamente vuoto: scomparso il giovane maître indiano, scomparsi utensili, pentolame e condimenti preziosi amorevolmente conservati. Lo choc è tale da causarle la perdita della parola, e da indurla a fare ritorno – frettolosamente – nel villaggio natio, dal quale era fuggita all’età di quindici anni. Qui, decide di aprire un ristorante unico nel suo genere, che prevede un solo tavolo e dove lei cucina ogni sera un menu speciale, a misura dei desideri e dei bisogni dei suoi clienti. In altri termini, Ringo nella quiete dei monti sostituisce le parole con il cibo, che diventa il suo unico mezzo di espressione e comunicazione. Ma la ricerca maniacale del piatto perfetto, capace di sanare antiche e recenti ferite, perché il cibo – per citare Eagleton – “is actually a relationship”, travalica i confini della cucina locale, per spingersi a esplorare quella del sud-est asiatico, dell’Europa, delle Americhe, dando vita a menu quanto meno originali. Il racconto si dipana pagina dopo pagina fra brevi aneddoti di ricette e frammenti di vita della protagonista e dei clienti del minuscolo ristorante, fra di loro legati dal sottile e tuttavia fortissimo fil rouge del faticoso rapporto madre-figlia.

In Giappone il romanzo della giovanissima Ogawa è stato un best-seller, fatto sicuramente legato, oltre che alla piacevolezza della storia, al ‘gourmet boom’ degli ultimi anni che ha generato e rapidamente ‘consumato’ decine di migliaia di pagine dedicate al cibo, dalla fiction, alla poesia, alla saggistica, ai classici libri di cucina. Le radici del fenomeno affondano nel turning point della metà degli anni ’50, quando sempre più spesso si comincia ad associare al consumo e alla preparazione del cibo il piacere: negli anni ’80 le raffinate prelibatezze prima riservate a pochi abbienti privilegiati sono ormai alla portata di tutti, e al desiderio della degustazione si accompagna adesso quello di una maggiore informazione. È così che nascono programmi televisivi quali Ryōri tengoku (Cooking Paradise, 1975–1992) e Ryōri no tetsujin (Iron Chef, 1993–1999), e manga come Oishinbo (The Gourmet, 1983–) e Kukkingu papa (Cooking Papa, 1984–), entrambi poi riproposti in altre forme e generi – anime, dorama, computer games

La seconda cosa che colpisce leggendo il romanzo, è invece il legame che fin dalle prime pagine si instaura fra cibo e viaggio, o meglio fra cibo e ritorno al furusato, il villaggio natio. Il tema del ritorno al furusato, strumento per la riscoperta e la guarigione del proprio io, ferito e frantumato nell’impatto con la vita della metropoli spersonalizzante e cosmopolita, rientra in un più ampio discorso che riemerge ripetutamente nel Giappone degli ultimi decenni. Una sorta di ossessione per il recupero di un’autenticità culturale la cui integrità è minacciata dalla continua, massiccia esposizione all’Altro, sia esso l’‘Occidente’ o siano le altre nazioni asiatiche, spesso ostili per comprensibili ragioni legate alla storia recente. Anche in questo caso, come abbiamo visto per il ‘gourmet boom’, si tratta di un discorso che emerge negli anni ’80, gli stessi in cui Ogawa Ito, nata nel 1983, è cresciuta: sono gli anni della cosiddetta ‘bubble culture’, che segna la fine del dopo-guerra e l’inizio del post-dopo-guerra, che vedono l’emergere della cultura otaku. Ma sono anche gli anni in cui si impone a livello mediatico un nuovo trend, germinato dal rigurgito nazionalista della fine degli anni ’60: il ‘Ritorno al Giappone’. E un ruolo determinante nella sua diffusione lo ha avuto una campagna pubblicitaria lanciata da Japan Railways (JR, precedentemente Japan National Railways) dal titolo Discover Japan.

Il campaign concept su cui ruotava l’iniziativa, che riuscì a coinvolgere un enorme bacino di utenza (Marilyn Ivy, Discourses of the Vanishing. Modernity, Phantasm, Japan, University of Chicago Press, 1995), era quello della “scoperta”: ma scoperta di che cosa? Secondo il suo ideatore, Fujioka Wakao, si trattava prima di tutto di una riscoperta del sé, e infatti erano i viaggi solitari o al massimo in piccoli gruppi a essere promossi attraverso l’enfasi sul contatto tra il mondo metropolitano dei viaggiatori e quello delle località decentrate, da ‘esplorare’. Ed è così che lo spot pubblicitario diventa di fatto un racconto di ricerca e scoperta che il pubblico vuole ora vivere.

La Japan National Railway proponeva dunque la riscoperta di un Giappone “autentico”, libero da influenze esterne negative, un Giappone antico e incorrotto, dove ritrovare le radici di una appartenenza etnica esclusiva, incarnato nel furusato. Allo stesso modo, il viaggio di Ringo coincide con un ritorno alle origini, alle proprie radici, ma è proprio nella dinamica complessa fra perdita e ritrovamento che l’identità culturale, di cui il cibo è qui espressione e metafora, si rivela in tutta la propria ambiguità e contraddittorietà.

Ringo raccoglie frutta, bacche ed erbe dalla campagna, accarezza gli ingredienti quasi fossero creature viventi e umane, infonde amore e pietas in ogni singolo piccolo gesto di cui si compongono le sue lente preparazioni, nella determinazione a dare conforto nel contempo ai suoi ospiti e a se stessa. Ma non è la cucina giapponese tradizionale a materializzarsi sulla tavola imbandita. Al contrario, le ricette, minuziosamente descritte, offrono un mix di suggestioni internazionali, un approccio globale e locale insieme, dove si passa da un curry alle melagrane a un macaron alla crema di lamponi, dai tramezzini pere e cioccolato all’insalata di fragole al crescione, all’orata all’acqua pazza (in italiano nel testo originale).

Un po’ quello che accade nella campagna lanciata dalla JR nel 1993, Yes, let’s visit Kyoto (Sōda Kyōto, ikou そうだ 京都、行こう): i videoclip ritraggono scene mozzafiato degli angoli più suggestivi della vecchia capitale colti nelle diverse stagioni con il sottofondo musicale della My Favorite Things dal film del 1964 The Sound of Music. L’esito del battage pubblicitario fu un rapido e consistente aumento del numero dei turisti che controbilanciò il calo dei viaggi all’estero dovuto al diffondersi del panico da SARS e alla crisi economica:

Ringo, come abbiamo visto, nel villaggio natio ritrovato, sostituisce le parole con il cibo, strumento non solo di comunicazione ma anche di consolazione e conforto, e il romanzo, attraverso il piacere della cucina e del gusto, ci regala l’opportunità di guardare da una diversa angolazione il difficile e ambiguo rapporto che il Giappone a tutt’oggi intrattiene con se stesso e con l’Altro.

Trailer del film Shokudō katatsumuri, 2010, regia di Tominaga Mai.

© Paola Scrolavezza 2015

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