Japanese Heels – Fragili equilibri nella terra fra le stelle

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

Ekuni Kaori, classe 1964, esordisce sulla scena letteraria giovanissima, nel 1987, come autrice di narrativa per l’infanzia e l’adolescenza, ma il grande successo arriva per lei negli anni Novanta, con il romanzo Stella stellina (Kirakira hikaru, 1991; Atmoshere Libri 2013).

La storia che racconta è all’apparenza semplice. Al centro, una coppia di freschi sposi, Mutsuki e Shōko, lui è un medico, lei lavora come traduttrice free-lance dall’italiano: un contesto apparentemente banale, una routine matrimoniale apparentemente priva di brividi. Tuttavia, nell’alternarsi delle voci narranti dei due novelli sposi, prende forma una realtà diversa, una verità percettibile solo nello spazio ambiguo fra le due differenti prospettive che ci vengono offerte. In una società a tutt’oggi dominata dalle apparenze, nessuno dei due incarna il partner ideale: Mutsuki è omosessuale (ha anche un giovane amante fisso, Kon), e Shōko manifesta un disturbo borderline di personalità e una pericolosa tendenza alla depressione e all’alcolismo. Si tratta dunque di un matrimonio “di convenienza” – anche se non nel senso convenzionale del termine – consapevolmente scelto da entrambi per sfuggire alle pressioni delle rispettive famiglie, oltre che del contesto sociale.

Joy Hendry, una decina di anni prima della pubblicazione di Stella stellina, osservava che la centralità del matrimonio nella vita adulta di uomini e donne era ancora fortemente sentita in Giappone alla fine degli anni Settanta, e che il fatto che l’unione tradizionalmente venisse intesa come finalizzata soprattutto a garantire la continuità della famiglia attraverso i figli che ne sarebbero nati era alla base della diffusa resistenza ai cambiamenti in materia. E statistiche più recenti confermano che, nonostante l’emergere nel dopoguerra di una folta borghesia urbana, molti individui – soprattutto di sesso maschile e in carriera – ancora negli anni Novanta si sentivano spinti a sposarsi per apparire “normali” e avere maggiori possibilità di ottenere una promozione. Il matrimonio insomma rimaneva ancora l’ultimo passo da compiere per sancire il definitivo ingresso nell’età adulta, da membri responsabili della società.

Ma cosa si intende quando si parla di “famiglia”? Il modello normativo dominante rimane indubbiamente ancora quello tradizionale, che continua a vivere nella pur più moderna concezione di katei (nucleo familiare), fondato su una struttura matrimoniale monogama, i cui capisaldi sono la rigida definizione dei ruoli di genere e i sentimenti “puri”, che generano quella felicità necessaria alla sana educazione dei figli. Il ruolo riservato alla donna rimane in sostanza quello di moglie e madre, mentre l’uomo deve essere il daikokubashira, il pilastro della famiglia, colui che la sostiene soprattutto economicamente. Nella prassi tuttavia, nel corso degli anni ’90, le profonde trasformazioni politiche, economiche, sociali e culturali che investono il Giappone, si ripercuotono con particolare evidenza proprio sulla famiglia, e si traducono in un ripensamento dei tradizionali ruoli di genere, parallelo al diffondersi fra le giovani generazioni di un profondo disagio nei confronti del modello egemonico di mascolinità – nel dopoguerra rappresentato dal salaryman, simbolo di quella media borghesia operosa sulla cui abnegazione si è costruito il boom economico degli anni Sessanta.

Icona del Giappone moderno e industrializzato e nel contempo personificazione degli ideali di lealtà, sacrificio e senso del dovere, nell’immaginario collettivo associati all’ormai stereotipata e mitizzata figura del samurai, il salaryman – per inciso – sarà destinato a perdere progressivamente il suo appeal in quanto modello ideale con il conclamarsi della crisi economica.

L’esito ultimo di questo lento ma inarrestabile processo è il proliferare odierno di mascolinità alternative (si pensi per esempio al recente scalpore suscitato dai cosiddetti sōshoku danshi, gli ‘uomini erbivori’, giovani uomini che rifiutano appunto i modelli di ruolo tradizionali in favore di uno stile di vita completamente diverso). Il romanzo di Ekuni si colloca all’estremità opposta, e di questo stesso processo coglie il primo manifestarsi: nel 1991, 

nel Giappone sull’orlo dello scoppio della bolla economica dove i protagonisti vivono, l’istituto matrimoniale può anche essere in crisi, ma gode ancora di ottima salute. Infatti, per i genitori di Shōko, particolarmente tradizionalisti – un po’ old-fashioned? – la scoperta dell’omosessualità del genero, un distinto professionista, è uno shock. Le parole sprezzanti del padre di lei, «non posso credere che mio genero, il marito di mia figlia sia un mezzo uomo!», riecheggiano uno stereotipo diffuso, che concepisce il maschio omosessuale solo in termini di “femminilizzazione”. I media stessi continuano a rappresentare i gay o come figure simpaticamente divertenti, amici e partner ideali per una donna, o come una temibile minaccia alla stabilità della famiglia e quindi della società; il sesso fra di loro di conseguenza può essere presentato come disgustoso, oppure come romantico e puro, cosa che accade per esempio nello yaoi. A questo proposito, McLelland sottolinea la difficoltà, in una società di stampo patriarcale come quella giapponese, di “rappresentare” un uomo sessualmente coinvolto con un altro uomo. Per questo il gay viene di norma descritto in termini di “donna mancata”, un mezzo uomo, per citare ancora una volta il padre di Shōko. Mostrare due uomini che interpretino perfettamente il canone normativo che definisce il genere maschile impegnati in una relazione sessuale, significherebbe infatti inevitabilmente mettere in dubbio la validità dei ruoli di genere stessi. Di fatto, né Mutsuki né Kon hanno nulla dell’etereo fascino dei protagonisti del già citato yaoi, che in un certo senso rappresentano la nascita di un nuovo genere, dove “maschile” e “femminile” si fondono in un ideale androgino. Infatti, se biologicamente sono “maschi”, di fatto il genere che – per citare Judith Butler – “perfomano” o interpretano non è quello maschile. Tuttavia Mutsuki incarna alcuni tratti che nell’immagine proiettata e diffusa dai media differenziano gli omo dagli eterosessuali: veste bene, ha un buon profumo, è un ottimo cuoco e nelle faccende di casa se la cava molto meglio della moglie. È interessante cercare di capire come nasce questo stereotipo, e come si afferma a livello mediatico. Il punto di partenza sono gli anni Sessanta, quando l’onda della rivoluzione sessuale che attraversa Europa e America arriva anche a lambire il Giappone, esercitando una profonda influenza soprattutto sul cinema (basti qui ricordare il celeberrimo film Bara no sōretsu [Il funerale delle rose], girato nel 1969 per la regia di Matsumoto Toshio). È tuttavia solo nel corso del decennio successivo che l’amore omosessuale irrompe nel mainstream, prima attraverso il manga e poi, di riflesso, attraverso la letteratura. Parallelamente si registra anche la nascita della pornografia

a tematica gay, con una serie di pubblicazioni pensate per un target specificatamente omosessuale, la prima delle quali è la rivista Barazoku, il cui primo numero è del 1972. Ma è nei primi anni Novantache si assiste a quello che viene definito il gei būmu, il “gay boom”: pubblicazioni, film, soap e talk show televisivi, contribuiscono ad aumentare la visibilità dei maschi omosessuali (completamente diversa la situazione dell’omosessualità femminile, sulla quale grava a tutt’oggi una pesante omertà). L’interesse dei media per l’omosessualità maschile non si limita ovviamente alla televisione e al cinema, ma si amplia alle riviste a più ampia diffusione, sulle cui pagine si moltiplicano articoli e reportage sulla scena gay. Questo interesse da parte dei media da un lato stimola l’attenzione dell’accademia, dall’altro finisce per creare un vero e proprio mercato editoriale a tema, dove trovano spazio autori gay e donne.

In questo contesto nasce l’immagine idealizzata del maschio omosessuale che ritroviamo nei manga pensati per un pubblico femminile. E il successo che riscuote è riconducibile a due fattori fondamentali: da un lato l’uomo “femminilizzato” non è più l’antagonista con cui confrontarsi, ma un amico comprensivo, dall’altro la donna si identifica con lui, che possiede i tratti più affascinanti normalmente associati alla femminilità, ma, in quanto uomo, gode di una libertà a lei preclusa. E questo ‘uomo ideale’ è molto lontano dal modello di virilità eterosessuale tuttora proposto dai media. In questo contesto quindi l’omosessuale maschio, nell’opposizione binaria omo/etero, rappresenta il polo positivo, il compagno ideale per la donna nella sua battaglia per conquistarsi uno spazio diverso all’interno della società, e per affermarsi come soggetto.

da Paola Scrolavezza, Fragili equilibri nella terra fra le stelle, in Ekuni Kaori, Stella stellina, Atmosphere Libri, Roma 2013

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