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Japanese Heels – Il ritorno di M.me Red: di geisha e di gru

28 Agosto 2016
M.me Red

Pensieri, parole, visioni, fragili come i più sottili e slanciati dei tacchi a spillo. Una rubrica firmata M.me Red.

L’inverno di M.me Red è stato lungo e gelido, e il susseguirsi incessante di impegni mondani nonché – in tempi più recenti – un’intensa attività come cacciatrice di Pokémon l’hanno suo malgrado tenuta lontana dalla tastiera. Tuttavia, nelle ultime settimane, complici gli ozi estivi, fra un Pikachu e un Dratini, si è immersa nella lettura. Noir soprattutto. Dalla Francia, dal Giappone, dall’Italia. Ma fra un torbido delitto e un’indagine pericolosa, è spuntata a sorpresa una gru, infreddolita.

 

Itezuru, ovvero Una gru infreddolita. Storia di una geisha, il manga scritto fra il 1974 e il 1980 da Kazuo Kamimura recentemente pubblicato da J-Pop nella bella e attenta traduzione di Paolo La Marca, racconta, con la forza del suo tratto e dei dialoghi scarni quanto intensi, la storia di Tsuru (la gru del titolo), dai giorni difficili dell’apprendistato come geisha al debutto e al successo, nei primi anni dell’epoca Shōwa. Il disegno sembra crescere con la protagonista, che da acerba e spigolosa shikomikko, apprendista appunto, si trasforma in una splendida donna, dalla femminilità morbida e dal tratto pieno.

Lo spaccato di un mondo da sempre carico di fascino, dai tempi in cui, sullo scorcio del XIX secolo, i primi viaggiatori europei, sfaccendati globe-trotter dalla raffinata cultura fin de siècle, riportavano dal Paese del Sol Levante come souvenir cartoline e album che ritraevano questi per loro simboli di una femminilità esotica quanto assoluta. Ma Kamimura, a differenza degli scatti di Felice Beato e degli altri fotografi della celebre scuola di Yokohama, ci consente di gettare uno sguardo oltre le sete preziose dei kimono e le elaborate acconciature, per scoprire la malinconia e la sofferenza di un quotidiano che troppo spesso si ammanta di crudeltà e squallore. Non solo: ritrae quel mondo carico di echi iconografici e letterari (basti pensare ai ritratti delle stampe ukiyoe di Kitagawa Utamaro) nel momento in cui è prossimo alla fine, destinato a essere spazzato via dall’incipiente e incalzante modernità.

Pagina dopo pagina, impossibile per M.me Red non ricordare un’altra piccola gru, la protagonista di Geisha. Kutō no hanshōgai di Masuda Sayo, edito in Italia da ObarraO con il titolo Il mondo dei fiori e dei salici. Autobiografia di una geisha, nella sensibile traduzione di Silvia Taddei, con prefazione di una oscura insegnante di Bologna…

Masuda era nata nel 1925 in un villaggio della prefettura di Nagano, una regione che nei primi decenni del secolo doveva la sua fama ai paesaggi montagnosi e inospitali, e alle misere condizioni di vita dei suoi abitanti. All’età di cinque o sei anni, quando avrebbe dovuto iniziare la scuola, fu mandata a servizio come bambinaia nella casa di un mediocre proprietario terriero della zona, e a dodici anni, la madre, oppressa dal bisogno, la vendette a una okiya – una casa di geisha – situata nei pressi della stazione termale di Suwa. Qui, alla Takenoya, la ‘Casa del bambù’, nel 1940, dopo quattro anni di faticoso lavoro come domestica e un duro apprendistato, fece il proprio debutto. Tra il 1956 e il 1957, quando erano già trascorsi più di dieci anni dal momento in cui aveva deciso di porre fine alla propria carriera come geisha, redasse la sua autobiografia, molto del cui fascino è nella spontaneità di una scrittura limpida, immediata, spesso colloquiale, nella quale vibrano di volta in volta paura, rabbia, smarrimento, sofferenza.

Al di là dell’immagine della piccola gru, la bambina che per proteggere i piedi dal freddo nelle giornate d’inverno aveva l’abitudine di tenere sempre una delle due gambe piegata e raccolta sotto il corto kimono infantile, ad accomunare i due racconti è la resistenza alla bidimensionalità, alla mancanza di spessore delle figure di geisha alle quali la già citata tradizione iconografica e letteraria ci ha abituato: bambole ritagliate su fragile carta di riso, preziosi ornamenti di lusso ieri per banchetti e sale da tè, oggi per incontri fra uomini d’affari facoltosi.

Entrambi, Kamimura e Masuda, squarciano il velo, e mostrano – ognuno della propria protagonista – quello che abitualmente rimane fuori dalla cornice: la bambina senza nome, infreddolita, affamata, venduta. Il mito romantico si sgretola per lasciare spazio alla donna, sangue e carne, ferita, umiliata eppure indomita. La cui vita viene raccontata con sincerità cruda e brutale, eppure non scevra da quel tocco di ironia che ne sottolinea la forza.

 

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