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Intervista a Jake Adelstein

20 Agosto 2014
Stefania Viti

Per gentile concessione di Jake Adelstein

Intervista a Jake Adelstein, giornalista e scrittore. Autore di Tokyo Vice. An American Reporter on the Police Beat in Japan (USA, 2009 – Italia, Einaudi 2011). Libro di memorie ma soprattutto storia mozzafiato sugli intrecci tra yakuza, crimine, politica e giornalismo. Che adesso diventa un film con Daniel Radcliffe

Estroverso, ironico, disponibile. Se si fanno due chiacchiere – via web – con Jake Adelstein nessuno s’immaginerebbe mai che dall’altra parte dello schermo c’è uno dei più coraggiosi reporter degli ultimi anni, autore di un interessantissimo romanzo di memorie che racconta gli intrecci tra yakuza, crimine, politica e giornalismo. Grazie alle sue inchieste Adelstein è riuscito, infatti, a mettere sotto scacco Tadamasa Goto, pericoloso boss della yakuza (la mafia giapponese) e a decretarne la fine. Per riuscire a strappargli un’intervista lo inseguiamo – virtualmente – per mezzo modo: Usa, Giappone, Londra. È un periodo intenso per Adelstein. Il suo libro Tokyo Vice. An American Reporter on the Police Beat in Japan, bestseller uscito negli USA nel 2009 e pubblicato in Italia nel 2011 da Einaudi, sta per diventare un film che avrà come protagonista Daniel Radcliffe. Le riprese inizieranno a breve. “È un progetto che è stato in cantiere per anni. Ho rifiutato offerte precedenti e alla fine ho deciso di riscrivere la sceneggiatura con J.T. Rogers, mio ex compagno di liceo e drammaturgo di grande talento”, ci spiega. E non poteva che essere così, dato che la storia di Adelstein è più incredibile di qualsiasi fiction.

Attratto dalla misteriosa cultura del Sol Levante, Adelstein arriva in Giappone giovanissimo, frequenta la Sophia University e vive in un monastero Buddhista. Appena laureato diventa il primo gaijin (straniero) ad essere assunto da un giornale giapponese, loYomiuri Shinbun (il più importante quotidiano del Sol Levante), nel quale lavora dal 1992 al 2005 come cronista di nera occupandosi di yakuza e di traffico di esseri umani. È anche il primo giornalista straniero ad essere ammesso nell’esclusivo Tokyo Metropolitan Police Press Club. “Non pensavo che sarei stato assunto come reporter. All’inizio volevo soltanto testare la mia abilità linguistica. Avevo già pronto un lavoro alla Sony” spiega. Le sue inchieste lo hanno portato ad esplorare le viscere più nascoste del Giappone e la complessa vicenda che ha permesso al ricercato capo della yakuza, Tadamasa Goto, di sottoporsi a un trapianto di fegato negli USA. Viene dunque minacciato di morte dagli uomini di Goto, ma non molla e al momento giusto pubblica la storia su The Washington Post. La notizia fece molto rumore, fu ripresa da molti giornali – anche dai quotidiani giapponesi che si erano rifiutati di pubblicarla – e di fatto sancì l’inizio della fine di Goto. Entrato in un programma di protezione e costretto a rientrare negli USA a causa delle minacce, Adelstein dal 2006 al 2009 lavora per l’FBI a uno studio sul traffico di esseri umani. Oggi si divide tra USA e Giappone, scrive per The Japan Times, The Daily Beast e altre pubblicazioni giapponesi sotto pseudonimo, anche se precisa, “talvolta uso anche il mio nome”. Sta inoltre lavorando al suo nuovo libro The Last Yakuza.

Sig. Adelstein, perché ha scritto Tokyo Vice?

Perché volevo condividere quello che avevo imparato sul Giappone. Volevo che le persone imparassero dai miei errori, che conoscessero il mondo giapponese del crimine e chi se ne occupa, i poliziotti, i criminali, i reporter. E come lavorano. Volevo inoltre che la gente sapesse quanto sia realmente terribile il traffico di esseri umani. Ho voluto commemorare le persone che ho realmente amato e perduto negli anni: è un libro che ho scritto per loro. E infine ho voluto essere un chiodo nella bara di Tadamasa Goto, un uomo malvagio che ha causato morte e miseria e che non si è mai pentito per quello che ha fatto. Ho anche sperato che il libro potesse spingere le persone ad essere coraggiose, a combattere per la giustizia, ed essere fonte di ispirazione per qualcuno.

Quale è la grande differenza tra la yakuza e le organizzazioni criminali occidentali come la mafia?

La mafia giapponese esiste come entità legale, con fan magazine, biglietti da visita, uffici e tutti sanno chi c’è in cima. Hanno un’immagine da preservare, che è quella di essere una organizzazione d’onore e “umanitaria”. Questo li tiene sotto controllo. Quasi tutti i gruppi di yakuza proibiscono alcuni tipi di crimine come furto, rapina, violenza sessuale, e apparentemente, anche spaccio di stupefacenti. Quindi, non sono responsabili per quel tipo di criminalità di strada che erode la fiducia nella pubblica sicurezza. Estorsione, racket, ricatti, strozzinaggio ecc… sono invece i campi dove fanno i soldi.

La sua vita è stata strettamente collegata a quella del boss della yakuza Tamagasa Goto. Lo ha mai incontrato? E cosa può dirci dello scandalo sul trapianto di fegato, che in una intervista ha detto essere la seconda ragione di morte per i membri della yakuza.

Sì, i membri della yakuza bevono parecchio e i tatuaggi sono spesso fatti con aghi infetti. In molti contraggono l’epatite C. I metodi giapponesi di tatuaggio tradizionale “wabori” (和彫り) sono molto duri, danneggiano la pelle e indirettamente il fegato. Ho incontrato Goto una volta in un club a Ginza – l’ho scoperto anni dopo – e la seconda volta al suo processo, quando stava lasciando l’aula. C’è stato solo uno scambio di sguardi, ma è bastato per far capire l’uno all’altro la nostra reciproca avversione.

Ha mai più incontrato Goto dopo che si è ritirato dalla yakuza ed è diventato un monaco Buddhista?

No, mai più. Goto è un falso monaco. Non si è mai scusato per la morte e le sofferenze che ha causato. Non nella sua biografia. Si è solo scusato con una famiglia dopo che è stato portato in sede civile per rispondere dei danni subiti per l’assassinio di un loro congiunto da parte del suo gruppo. Goto si è assunto la responsabilità in un senso, ma non è mai stato ritenuto penalmente responsabile.

Quale è stato il momento più difficile nella sua carriera investigativa come reporter di yakuza?

Quando ho scritto una storia sulla yakuza e su quello che è successo dopo il 3/11 (ndr: l’incidente nucleare a Fukushima) e ho rischiato di mettere in grandi difficoltà una delle mie fonti. Ho pensato che potesse perdere il lavoro o essere comunque in grandi difficoltà. All’ultimo momento sono stato in grado di evitare grandi problemi e di lasciare che le cose si sistemassero. C’è stato poi un altro momento molto difficile nella mia carriera, ma non ha molto a che fare con il lavoro di reporter di yakuza. Ma non ci voglio più pensare. Il passato non può essere cambiato.

Quale è il suo prossimo progetto?

Sto scrivendo il mio secondo libro, The Last Yakuza, una sorta di storia della yakuza dal dopoguerra ad oggi raccontata attraverso le vicende di un boss e dei suoi affiliati. Sto inoltre lavorando a due storie, una sono i collegamenti della yakuza con il Comitato Olimpico Giapponese e la seconda riguarda grandi aziende giapponesi che pagano la yakuza attraverso i gruppi politici.

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