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Giuseppe T. Gervasio: Oggi interprete, domani non si sa.

14 Novembre 2014
Giuseppe Gervasio

Traducendo l’indicibile – parte 2

Quello che le mutande (non) dicono.

(Traducendo l'indicibile – parte 1)
 

Ah, le mutande, dolce strazio della vita quotidiana. La mattina appena svegli, oppure dopo una doccia: il rito dell'apertura dell'armadio e della ricerca nel cassetto della biancheria intima, scrutando al suo interno come fosse un portale interdimensionale che ci materializza in un'altra galassia – quella delle tinte probabili e improbabili, vivaci e sbiadite, quella dell'elastico a banda larga o del filo intergluteo, quella dei merletti realizzati con il tombolo o delle fantasie inguardabili che provocano un capi-tombolo. Sì, non ci si può esimere da quel momento della giornata… a meno che non siate nel settore della cinematografia a luci rosse, nel qual caso, per essere sicuri che le mutande non lascino il segno, bisogna evitare di indossarle per svariate ore prima di qualunque ciak… così mi è stato riferito, ovviamente!

 D'altronde, se i capi d'intimo esistono così come oggi li troviamo nei negozi, una ragione ci sarà. Ma ovviamente, la mia mente che cerca spesso di estendersi e sovrapporsi esasperatamente ai misteri della linguistica, non può non essere carpita e incuriosita dal suono: mutande! Cosa può essere? Mutande! Ah sì, direi forse il gerundio femminile plurale del verbo mutare?! Mutando lui, mutanda lei? In realtà, per l’ambito etimologico vi rimando con umiltà a Wikipedia o al Treccani online, ma spero che concorderete anche voi che chi ha coniato il termine abbia avuto senza dubbio un gran senso dell'umorismo: se c'è una parte del corpo da sostenere che è spesso in fase di mutazione è proprio quella! Muta, muta, oh come muta! Da quando siamo in fasce a quando ci viene il capo canuto… e anche dopo… con creme di vario tipo e/o pillole blu!

Ma veniamo all'argomento del titolo: secondo voi, le mutande parlano? E se sì, cosa dicono? E hanno bisogno di un interprete? La mia risposta è: assolutamente sì! Pensate a ciò che vi dicono quando vi state preparando per andare a lavoro: a chiamarvi saranno quelle che vi danno un senso di agio per tutta la giornata; invece, prima di andare in palestra, dove persone dello stesso sesso potrebbero vedervi negli spogliatoi, il vagito nel cassetto è emesso da modelli di cotone, sobri con un tocco di sportivo; infine… vogliamo davvero soffermarci su quelle da indossare per gli appuntamenti amorosi in cui immaginiamo che la controparte avrà occasione di vederle?! Lì, se le sappiamo interpretare bene, le mutande ci narreranno il decorso della serata ancora prima di averle prese in mano! (…anche se spesso mentono!)

Comunque, le mutande di cui voglio parlarvi io hanno uno spessore molto grosso… ehm… grande… uhm… insomma, di levatura intercontinentale! Correva il novembre dell’anno 2012 e io mi trovavo a Roma per curare l’interpretariato giapponese-italiano della Mostra Internazionale del Cinema, quando una docente dell’Università di Venezia mi contatta al telefono. Anche se non ci conosciamo tantissimo, mi ricordo molto bene di lei perché abbiamo avuto negli anni più di qualche occasione per lavorare insieme come interpreti ad alcuni eventi nella laguna veneta e perché mi aveva molto colpito la sua elevata conoscenza e padronanza della grammatica giapponese in ogni sua sfaccettatura – anche quella applicata ovviamente. Il che, posso garantirvi, non è da poco, perché per facilitare l’insegnamento di una lingua così diversa dalla nostra, come il giapponese, saper creare degli appigli per trovare un riscontro tra le due lingue è assolutamente lodevole. Lei mi dice che a metà dicembre, uno dei più grandi imprenditori del mondo – neanche a dirlo, originario della terra del sol levante – verrà a tenere una lectio magistralis nell’Aula Magna di Ca’ Foscari alla presenza di professori e alunni delle facoltà di economia, lingue orientali e chiunque altro sia interessato. Tra l’altro, proprio nella facoltà di economia, sono presenti numerosi professori che ricoprono cariche tra le più prestigiose dell’università. Trattandosi di un evento così formale, l’ateneo veneziano vuole richiedere il servizio di traduzione a un professionista che ha compiuto gli studi nell’università stessa… ed eccomi qui! Bene: una nuova sfida! L’azienda di questo imprenditore tratta la manifattura di tutto lo scibile: dagli spilli ai vestiti, dai giochi per bambini alle valigie, dagli articoli per la casa ai… capi d’intimo (!); tra l’altro di recente hanno aperto un punto vendita anche a Venezia – affare fatto, accetto!
La preparazione dell’evento è gestita dalla docente di cui sopra con altissima professionalità. Circa una settimana prima dell’incontro, mi fa pervenire tutte le diapositive che saranno usate durante la presentazione sia nella versione originale giapponese sia sotto forma di traduzione in italiano da lei curata insieme a un team di studenti talentuosi. Io ho occasione di studiare il tutto e di calarmi già in un modus operandi che – per scelta di politica aziendale – decide di allontanarsi dai brand come li intendiamo tradizionalmente e cerca di dedicarsi alle responsabilità sociali. Arriva il gran giorno e io sono emozionatissimo perché sarà presente un ampio pubblico che conosce il giapponese ad altissimi livelli. Mi reco sul posto con un certo anticipo per poter incontrare la docente e rimango in compagnia sua e di altri professori universitari vicino al portone che si affaccia sul canale dove sbarcherà il personaggio in questione. E infatti dopo una mezz’ora scarsa arriva un motoscafo da cui scendono un paio di signore e signori giapponesi ben vestiti e per ultimo il protagonista dell’evento con indosso un lungo cappotto nero che lo protegge dalla bassa temperatura di quel freddo pomeriggio di fine autunno.
Con gli assistenti eseguiamo subito il rito abbreviato dei salamelecchi reciproci – anche detto minuetto dell’interprete – del tipo: “Un non madrelingua giapponese come interprete, che rarità”, a cui si accompagnano le classiche risposte: “Farò del mio meglio per trasmettere ogni parola detta”, ma nel frattempo il grande capo mi ha già squadrato da testa a piedi, ha visto che sotto braccio ho un bel glossario fatto di tutti i termini tecnici che compaiono nelle sue diapositive e gli è bastato scambiare poche parole per capire che non sono il tipo che tralascia neanche una parola durante un servizio di interpretariato.
Inizialmente ci portano in una stanza con una trentina di banchi, sembra una piccola sala conferenze o comunque una classe di un qualche corso avanzato. Disponiamo i banchi a ferro di cavallo per poterci vedere tutti in volto – io di fronte a lui – e inizia un briefing di circa mezz’ora. Dopodiché veniamo spostati in una camera più piccola: l’ufficio di alcuni docenti. Abbiamo solo una scrivania a disposizione, ma va ancora meglio perché così io e la docente che ha organizzato l’evento possiamo monopolizzare l’attenzione del personaggio, che ci racconta per filo e per segno il tono, l’accento e la portata del discorso con cui vuole omaggiare l’Università Ca’ Foscari.

Toc toc. Bussano alla porta perché è giunta l’ora dell’inizio della conferenza. Inizia il fremito a stream of consciousness dell’interprete: “Mi ha già raccontato tutto ciò che vuole dire, allora da cosa deriva questo mio batticuore. No, però se ci penso bene non è tanto un batticuore, è che mi sembra di… farmela addosso! Ah sì, devono essere i tre caffè e il litro d’acqua bevuti durante il briefing. Ma ormai è tempo di andare! Menomale che oggi mi sono messo le mutande larghe!”.

Brevissima digressione. Dovete sapere che io non sono assolutamente un tipo scaramantico. Ballo la macarena sotto le scale, limono con i gatti neri, taglio gli angoli delle strade come il burro con il coltello caldo, ecc. Ma ho un rito. Da quando ho iniziato a fare questo lavoro. Indossare mutande intessute nel paese da cui proviene chi devo tradurre. Ebbene sì: sappiatelo, se devo tradurre in combinazione italiano/inglese verso il giapponese starò indossando capi intimi made in Japan. Invece per le volte in cui devo tradurre dall’italiano/giapponese verso l’inglese, ho una collezione di mutande di Bloomingdale’s che neanche vi immaginate. E per un compleanno ricevetti delle Calvin Klein a strisce bianche, blu e verdi che mi regalarono l'emozione di una chiamata dalla Nasa che mi avvertiva che le intravedevano dalla Stazione Spaziale Internazionale insieme alla Grande Muraglia Cinese.
Lo so! Lo so! Ora alcuni di voi si staranno chiedendo cosa indosso quando ho traduzioni incrociate da fare da e verso varie lingue! In quei casi in genere combino l’intimo con magliette bianche, cinture, cravatte e penne di vari paesi …o rubate (con consenso degli ex proprietari!) a colleghi che stimo tanto. Fine della digressione.
Come immaginavo, l’Aula Magna è gremita di studenti e in prima fila sono seduti numerosi professori dell’ateneo. Vescica mia, fatti capanna.
Si inizia. Il discorso di introduzione dell’evento viene fatto a otto mani dai professori che fungono anche da moderatori. Non ricordo più la loro carica, ma mi sembra ci fosse anche il vice-rettore e altri esponenti che spiegavano il grande valore della presenza di questo personaggio giapponese per l’università veneziana. Dopo circa una decina di minuti rimaniamo soli lui e io sul palco con un enorme schermo che ci sovrasta e che mostra agli spettatori le diapositive.
Mentre lo traducevo, la voce della mia consapevolezza si compiaceva di ogni parola pronunciata da quest’uomo, che esprimeva lo spirito, la determinazione e l’umanità di un Imprenditore con la “i” maiuscola. Per sintetizzare in poche parole il contenuto del suo intervento durato oltre un’ora, posso dirvi che ha cercato di concentrare l’attenzione delle comunità, accademiche e non, su uno slittamento di percezione che vada dal “voglio questo” al “questo mi va bene”. Enucleando ulteriormente il concetto, si può dire che al giorno d’oggi lo stile di vita metropolitano ci abbia portato a pensare che dobbiamo impossessarci delle cose non in base alla loro funzionalità, ma a una serie di elementi che ci vengono proposti come “assolutamente necessari”. Quindi, ad esempio, invece di valorizzare il colore naturale di un tessuto, lo si tinge di tinte improbabili – che poi magari scoloriranno in lavatrice dopo alcuni lavaggi – per l’egoismo di avere qualcosa di originale.
Ovviamente, il discorso che lui ha fatto è molto più articolato di questo, però riflettiamoci su: quante volte nella vita ci sarebbe andato perfettamente a genio un oggetto, ma non l’abbiamo acquistato perché c’era la versione più o meno così o colà. Non si tratta di un giudizio né di bene né di male, ma è un pensiero che si propone in termini di come poter vivere con maggior serenità per sé e per gli altri.

Non abbiate paura, non mi sono scordato! Il lato oscuro della mutanda sta per manifestarsi! Proprio adesso! Nel momento delle domande e risposte!
Uno dei docenti avvia la partecipazione da parte del pubblico che ci inonda di domande di tutti i tipi – più o meno tecniche, pratiche, economiche, manageriali. Lui si destreggia con sicurezza ma sempre con grande umanità. La sua umiltà nel mettere tutto sé stesso nelle risposte affinché vengano comprese appieno è un esempio da imparare anche per gli insegnanti presenti.
Finché non arriva lui: lo studente saputello! Proprio quello che lo vedi e già capisci che vuole fare vedere a tutti che lui ha le mutande più gonfie degli altri (metaforicamente parlando!). Lo riconosco subito perché… anch’io ero cosi ai tempi della scuola!
La domanda che fa è a grandi linee: “Mi scusi, ma allora lei vuole che tutti trattino la sua azienda come quella di Steve Jobs? Cioè telefonini, computer e lettori mp3 tutti della Apple; e vestiti, articoli per la casa e tutto il resto del suo brand?”.
E la risposta potrebbe risultare semplice a primo acchito: “Certamente no. Nella vita è sempre bello variegare. Pensi a me, oggi sono venuto qui elegantemente vestito di alcuni capi della mia azienda, ma i pants che indosso sono di Paperino”. Allo scoccare della pronuncia dell’ultima parola in corsivo che avete letto, nella mia mente è suonata la prima nota di un percorso musicale operistico in tre atti per interpreti:

Preludio : La mutanda del Nibelungo (niente di male per chi il Nibe ce l’ha corto!)
Atto primo : Figura di Mer*a Rusticana (se ora sbaglio parola mi lapidano con lattine di tè verde)
Atto secondo con gran finale : Lavatrice Butterfly (solo se azzecco la traduzione e un bel dì vedrò levarsi un fil di tanga)
La ragione di questo mio straniamento risiede nel fatto che pants in inglese britannico e in giapponese spicciolo significhi mutande, ma in inglese americano e in certe espressioni giapponesi voglia dire anche pantaloni. Capite che la differenza non è da poco. Uno dei due indumenti porta a spasso le sfere d’oro, mentre l’altro no (non credo ci sia bisogno di spiegarvi cosa siano le sfere d’oro nella lingua giapponese, vero? In Italia li chiamiamo gioielli di famiglia, il che ci fa capire che gli uomini di tutti il mondo li hanno sempre considerati più desiderabili di una trilogia di Damiani!).
Ovviamente, mentre inizio a tradurre la frase butto un occhio a quanto si intravedeva dei suoi pantaloni, ma era troppo scuro sotto la cattedra e si vedeva poco o niente. In quel momento ho capito come possa essersi sentito Michelangelo con il suo Mosè, perché anche io avrei voluto chiedere al ricamo che sgusciava sotto la sua cintura “perché non parli?” (…e mi dici se sei Paperino o no!)!
A quel punto mi prendo di coraggio e, innanzi al numeroso pubblico enuncio la traduzione, ma con la voce grave di Ungaretti che recita M’illumino d’immenso… o, a pensarci bene, forse più con la voce roca della Littizzetto che interpreta Lolita.

Mutande(h)”!!!

Non vi dico l’Aula Magna! Piegati in quattro dalle risate come boxer riposti nel cassetto dopo il lavaggio e la stiratura! Insomma, secondo me quello che aveva la vescica sotto pressione a 3,5 atmosfere, come i migliori spumanti, ero io, ma quelli che si sono lasciati scappare un filo di orina dalle risate sono stati gli studenti! …felici di vedere che l’irraggiungibile imprenditore di multinazionale avesse un senso dell’humour molto locale, che sapeva dosare per fare capire che siamo tutti fatti di preferenze che vanno oltre l’immagine che gli altri si fanno di noi.

Mamma mia, ho già scritto quattro pagine! Ormai ne avrete le mutande piene! 🙂

Basta, concludo!
…Come? Vi è rimasta la curiosità di sapere se quando poi l’imprenditore si è alzato dal palco aveva i pantaloni di Paperino e io sono stato decapitato con una katana dal vice-rettore, con il mio orecchio inviato alla mia famiglia come avvertimento a non sfornare nuovi interpreti per sette generazioni?!
Tranquilli, non mi ero sbagliato: trattavasi proprio delle mutande dello zio di Qui, Quo e Qua… il bravo interprete oltre che con le orecchie e la bocca, lavora con tutto ciò che ha a disposizione!

Ma, come la scorsa volta, voglio lasciarvi con una domanda: è meglio un perizoma oggi o un parigamba domani?

 

 

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