Quest’anno in apertura per il Giappone, il Far East Film Festival 27 propone Lust in the Rain, film del 2024 di Katayama Shinzō. Pellicola mattutina del 25 aprile di 132 minuti, il cui protagonista, interpretato da Narita Ryō, veste i panni di Tsuge Yoshio, un aspirante mangaka, alle prese con una relazione particolare nata con la cameriera Fukuko, interpretata da Nakamura Eriko.
Questa premessa sembrerebbe abbastanza lineare: una storia romantica travagliata e nulla più. Katayama, invece, prende quest’idea e la distorce in un flusso di coscienza, in un battito di ciglia di un uomo al suo ultimo respiro. Yoshio non è un artista, o meglio, lo era: ora è soldato, ora sta morendo, ora la sua psiche ci coinvolge in una vita che non è la sua.
Il film è un simil-adattamento di varie opere del noto fumettista Tsuge Yoshiharu (1937-), attivo fra il dopoguerra e la fine degli anni Ottanta principalmente sulla rivista Garo (1964-2002), a cui il nome del protagonista fa un chiaro riferimento. Tsuge è tradotto in italiano per Canicola, che ha portato alcuni dei suoi titoli come L’uomo senza talento (1985:2023), Nejishiki (1968:2018) e Il giovane Yoshio (1973:2018).

Proprio una delle sue opere, Ame no naka no yokujō (1981), dà il titolo al film e apre la pellicola: una scena di violenza sessuale nella pioggia. La componente sessuale è imprescindibile dall’opera: costante, esplicita (seppure censurata in modo un po’ retrò con delle parti sfumate) e che pervade ogni momento del film, come se fosse un pensiero laterale, intrusivo. Katayama cerca di ricreare lo stile onirico e trascendentale di Tsuge-autore, facendo dubitare la realtà della narrazione stessa, come se fossimo in un cosiddetto ‘fever dream’, il sogno indotto dal delirio.
Lo spettatore viene introdotto in questo mondo senza luogo e senza tempo: chiaramente è ambientato prima della Seconda Guerra Mondiale, ma quando? Le case non sembrano giapponesi, anche se il luogo in cui vivono Yoshio e Fukuko si chiama Kitamachi (città del nord in giapponese); siamo dunque nelle colonie dell’Impero? In Manciuria? Man mano vengono rivelate bizzarrie, assurdità e, sempre di più, ci si rende conto di star guardando qualcosa di surreale.

La guerra, poi, appare d’improvviso con lo scioglimento del suddetto delirio: una volta che Yoshio riesce a coronare il suo sogno d’amore con Fukuko, la realtà appare sia per lui che per noi. Questo tipo di narrazione sembra quasi riprendere Jacob’s Ladder (it. Allucinazione perversa, 1990) di Adrian Lyne, che utilizza la negazione della realtà e i lasciti degli orrori nel nostro subconscio, tramite allucinazioni auditive e visive, personaggi che vivono al limite fra due mondi di veglia e di sogno.
Seppure la narrazione abbia vari livelli metanarrativi in atto, Katayama riesce nel suo intento di confondere ma non alienare lo spettatore, seppure, scattata la prima ora e venti, iniziano a susseguirsi scene che incitano a un finale che non sembra arrivare mai. Questo diventa presto un problema, in quanto il film avrebbe una sequela di eccellenti ‘scene conclusive’ (in primis, Yoshio sulla spiaggia che esce di scena lasciando un sole rosso di tramonto su un cielo terso, quasi a rimandare la bandiera giapponese per cui è morto), che però rimangono in sospeso, con il film che semplicemente… continua, a tratti quasi in modo estenuante.
Il film, seppure a tratti pesante per l’attesa di un finale che sembra non giungere mai, ci lascia con un affascinante spaccato della psiche umana nei suoi momenti finali: la vita ci scorre davanti, ma è davvero la nostra?