Come si fa a fare un film horror dopo una carriera trentennale di sole commedie? Questa è la domanda che critica e pubblico si sono posti quando Yaguchi Shinobu, noto regista giapponese, ha sorpreso tutti al Far East Film Festival di Udine quest’anno portando alla kermesse Dollhouse in anteprima mondiale. In questa storia di bambole possedute le risate sono sostituite da (forse troppi) jumpscare, ma comunque propone idee e suggestioni interessanti.
Come ha infatti ribadito sul palco del Teatro Nuovo, il regista ha intrapreso questo cambio di rotta cinematografico per esplorare al meglio l’idea alla base di questa pellicola, ossia il profondo trauma della perdita di un figlio da parte dei genitori, come succede ai due giovani coniugi Yoshie e Tadahiko (interpretati da Nagasawa Masami e Seto Koji) con la loro piccola Mei, deceduta per un momento di disattenzione della madre.
La donna sviluppa presto una forma di demenza precoce causata dall’avvenimento, ma quando rinviene una vecchia (e inquietante) real doll a un mercatino di quartiere, decide di sostituirla alla sua bambina scomparsa. Con questa doll therapy, accettata con riluttanza dal marito, ha gli effetti sperati: Yoshie non solo guarisce ma intraprende una nuova gravidanza, risanando l’intero nucleo familiare. Dopo anni però, la nuova figlia, Mai, rinviene la misteriosa bambola in un armadio, iniziando a giocarci e a passare molto tempo con lei. Prevedibilmente, questa bambola non si rivela essere un semplice giocattolo…

L’intreccio che ne consegue prende degli sviluppi “interessanti”: con la natura via via più violenta della bambola anche la presa sulla realtà dei due coniugi inizia ad assottigliarsi, con la figlia e il giocattolo che iniziano a confondersi ai loro occhi in situazioni sempre più surreali e inquietanti. Dollhouse in questo prosegue il discorso sociale che Yaguchi mette sempre nei suoi lavori, e in questa storia analizza il nucleo familiare giapponese dopo Survival Family (2017) con strumenti narrativi nuovi del genere horror, mettendo in scena le più classiche paure delle figure genitoriali. Il film qui costruisce le sue scene più tese, rinchiudendo l’orrore dentro le quattro mura domestiche in scenari in cui lo spettatore può riconoscersi.
La stessa bambola, presto denominata Aya, diventa ben presto la protagonista assoluta del film, conquistando anche l’attenzione della sceneggiatura e di tutti i personaggi coinvolti. La seconda parte della storia si trasforma così in una storia mistery con al centro le origini ignote del demoniaco giocattolo. La scrittura mantiene sempre il suo focus su tematiche familiari e relative ad abusi domestici, ma con un tono decisamente più scorrevole e meno improntato sull’orrore, nonostante la natura più esoterica e folkloristica di questo segmento. I due atti in cui è composta la vicenda un po’ fanno attrito fra di loro proprio per questo cambio di tono e per le forzature narrative che traghettano verso un (prevedibile) finale a sorpresa tipico del genere.

Il passaggio a un registro horror da parte di Yaguchi, autore sempre noto per le sue commedie sopra le righe risulta invece la parte forse più “interessante”: spesso si discute che commedia e horror siano due generi in realtà molto affini per i toni tecniche di regia, e nel caso di Dollhouse si sente chiaramente l’influenza della carriera del regista che torna spesso e volentieri alla ribalta, con momenti involontariamente comici all’interno di scene orrorifiche o una sovrabbondanza di jumpscare che cercano lo spavento dallo spettatore. L’aspetto più intrigante però è la limitazione nell’uso di Aya, che mai prende direttamente vita o si muove davanti alla macchina da presa, lasciando questo costante alone di tensione quando si trova nel campo.
Dollhouse come pellicola dell’orrore non funziona mai del tutto, complici momenti leggeri e trucchetti del genere che presto perdono efficacia, ma grazie al cambio narrativo della seconda parte salva la pellicola diventando un film più creativo e “piacevole” da seguire. Almeno si riuscirà a dormire la notte dopo un J-horror, finalmente!