Good Luck, l’ultimo lavoro scritto e diretto da Adachi Shin, è stato presentato per la prima volta in Italia al Far East Film Festival di Udine, ed è riuscito a spiccare tra i film giapponesi di quest’anno per la sua originalità e ironia. L’opera vede Yoshiyama Tarō, un regista ventenne di dubbio talento, durante un viaggio che lo porta a conoscere Sunahara Miki, una ragazza incapace di stringere rapporti duraturi e che quindi trascorre la sua vita viaggiando. La storia, inizialmente abbastanza banale, ha però sorpreso il pubblico per la relazione tra i due protagonisti, che si distacca dalle storie d’amore stantie e convenzionali dei classici americani per spingere l’audience a porsi domande sul confine labile tra realtà e finzione.
Nel film l’elemento metacinematografico è centrale: in vari momenti le battute enunciate dai personaggi principali sembrano rompere la quarta parete, senza che il passaggio sia esplicitato visivamente. Piuttosto si gioca sulla parziale coincidenza tra l’identità di Tarō, regista all’interno della storia, e quella del regista effettivo. Lo svelamento avviene in maniera graduale, il che amplifica il taglio performativo del film. Il pubblico è infatti costretto a ritornare indietro, a ripercorrere e rivedere le scene con occhi diversi, per cercare di comprendere un messaggio sfuggente e labile, e cogliere i momenti in cui le battute dei protagonisti non sono interne al dialogo narrativo, ma indirizzate a qualcuno che si colloca al di fuori del film: al regista reale o addirittura all’audience. Tuttavia, l’originalità derivata dalla coesistenza di due identità in uno stesso corpo – quella del personaggio e quella dell’attore – si palesa solamente nella seconda metà del film, rendendo la prima abbastanza lenta a confronto.
Dal punto di vista tematico, la pellicola esplora le difficoltà della nuova generazione di giovani adulti nel trovare il proprio posto all’interno della società giapponese. I protagonisti sono alla costante ricerca di risposte su come comportarsi, sia nei rapporti interpersonali che nei contesti lavorativi, ma esprimono questa loro esigenza in modi opposti: mentre Tarō nega a sé stesso l’opportunità di aprirsi al mondo, Miki allaccia brevi amicizie con completi estranei, sottraendosi dalle relazioni che le possano portare stabilità. Questi aspetti delle diverse personalità si rivelano una costante durante tutto il film, facendo sì che l’opera si discosti dalle narrazioni di crescita tipiche dei racconti di viaggio per avvicinarsi a una visione più realistica e anticlimatica.
Si arriva così ad un finale che lascia sia il pubblico che i protagonisti perplessi: qual è il senso del loro incontro? Cosa devono fare per dare valore alla storia? Le domande rimangono sospese nel vuoto, con Tarō che cerca disperatamente un segno che dia significato all’incontro con Miki. Questi stessi quesiti sono fondamentali anche all’interno delle discussioni sull’opera cinematografica, e contestano l’importanza della conclusione nell’attribuzione di valore a un film. Tocca a Miki a farsi portavoce del dibattito: seminando dubbi sulla promessa di reincontrare Tarō in futuro, rende incerto il significato del film nella sua interezza e porta l’audience a sospendere il giudizio nell’indeterminatezza.
Spicca la regia originale ma solo a tratti, che avrebbe sviluppato appieno il proprio potenziale se solo fosse stata lasciata libera di espandere le sue declinazioni più surrealiste. Nonostante le scene più eclatanti del film mostrino una sensibilità artistica notevole, questa stessa sensibilità scompare nelle scene dove manca il gusto per la sperimentazione, e che quindi risultano quasi banali nella loro ordinarietà.
Tutto sommato, Good Luck rimane un film interessante da analizzare nelle sue sperimentazioni, che avrebbero sicuramente catturato maggiormente l’audience se fossero state sviluppate non solo nei dialoghi, ma anche nella regia.