Sembra ormai una tendenza affermata, messa in luce più volte dalla critica e dagli studi della scena cinematografica dark contemporanea, quella di confinare in secondo piano la dimensione extraumana e sovrannaturale, per soffermarsi invece sull’essenza più intima e recondita dell’uomo. Nell’immaginario orrorifico, il motore della paura risiede nell’incontrollabile e nell’ignoto e, arginando mostri, fantasmi e qualsivoglia creatura fantastica, nulla risulta esserlo più della psiche umana.
Una leggenda popolare thailandese, tramandata da secoli, vede protagonista una donna, Nak, che, rimasta sola e incinta alla partenza del marito Mak per il servizio militare, muore presto di parto insieme al suo bambino. Le tinte horror che hanno caratterizzato questa storia nella tradizione culturale thai prendono forma con il desiderio della donna di rimanere accanto al marito post mortem, sfumando in un inquietante racconto spettrale. Enorme successo al botteghino ha avuto la rivisitazione del giovane Banjong Pisanthanakun dal titolo Pee Mak, presentata quest’anno alla sedicesima edizione del Far East Film Festival di Udine. Fragorose risate in sala durante la proiezione sono state il risultato del riadattamento comico della leggenda: personaggi caricaturali e continue gag hanno stemperato i toni cupi e il sovrannaturale è stato in qualche modo parodizzato sotto forma di commedia. Ridicolizzato il paranormale, l’elemento ansiogeno palpabile emerge dai meandri della mente e dell’inconscio, fa quindi parte della vita di tutti i giorni. Si tratta del terrore celato di quel seme di follia che può irrompere nel quotidiano da un momento all’altro e che è potenzialmente insediato in ogni essere umano, un male acuito probabilmente dal senso di alienazione che pervade l'epoca contemporanea, annesso alla fragilità della coscienza identitaria. L’esito del conflitto individuale con la realtà esterna è rappresentato spesso come un raptus, una frattura nell’ordinario.
Sentimenti contrastanti e dissidio interiore alterano l’identità del singolo ed è questo il fulcro di una seconda opera in gara che, tra le altre, a mio avviso in maniera più intensa e chiara, dimostra l’attuale rotta del genere: un thriller psicologico forte ed efficace a basso budget, Bilocation, della regista giapponese Asato Mari. La bilocazione del titolo è un fenomeno che comporta la presenza di una persona in più luoghi simultaneamente e, al di là del suo utilizzo agiografico, come tema del “doppio” appare spesso nella letteratura e nella cinematografia horror. Takamura Shinobu, la protagonista del film, è una pittrice che ha trovato l’amore per un uomo gentile e quasi del tutto cieco, Masaru. La sua esistenza è scissa tra due appartamenti nello stesso palazzo: quello in cui viveva prima di conoscere il compagno, tetro e disordinato posto in cui dipinge, e quello in cui trascorre la propria vita coniugale, luminoso e perfettamente ordinato. Presto scopriamo, attraverso artifici da adrenalinico thriller psicologico con venature horror, che è stata vittima di bilocazione: un alter ego, in apparenza copia conforme della donna, conduce un’esistenza parallela e rischia di mettere in pericolo la sua stessa incolumità. Shinobu viene a contatto con altre persone afflitte dallo stesso problema e l'intreccio si infittisce e si articola in maniera complessa, mostrando una vera e propria lotta dei personaggi con le proprie bilocazioni, ma conducendo a un finale brillante. La bilocazione della donna, in ultima analisi, risulta essere la scissione della parte istintuale, il sé che si è affrancato dalla pressione etica sociale, scevro da freni inibitori, difficile da incatenare e abolire, come spesso sono difficili da estirpare i desideri più profondi. Proprio quando questa parte inconscia non si può più contenere, nasce la bilocazione. Un agente esterno cerca di conciliare le bilocazioni per ristabilire un equilibrio e da qui l’emblematica domanda rivolta alla donna verso l’epilogo del film “Preferisci essere la moglie o l’artista?”, come se, socialmente, un sé dovesse reprimere l’altro. Proprio da questa repressione scatta la rottura: “Lotterò profondamente contro me stessa” sono le parole della protagonista, e la regia è magistrale nel confondere lo spettatore su quale sia l’identità prevalente e quale quella fittizia e debole, fino all’epilogo. Takamura Shinobu di Bilocation è apparentemente felice, ma il confine con le proprie pulsioni più remote è labile, tanto quanto è semplice dissociarsi e scoppiare: questo è il terrore più grande che permea la nuova narrativa horror.
Da Taiwan arriva una risposta di minore impatto ma più enigmatica con Soul di Chung Mong-Hong, che instilla nello spettatore non pochi dubbi. Il vecchio Wang si trova a dover affrontare una tragedia: il figlio Chuan inizia a mostrare segni di squilibrio e un giorno in preda a una crisi uccide la sorella. Tuttavia, quello che sembra essere il ragazzo dichiara di essere un’entità differente, secondo cui Chuan non esiste più. Wang continua imperterrito, per tutta la durata del film, a coprire suo figlio dopo quest’atto brutale e a proteggerlo, nonostante l’essenza di Chuan appaia sempre più dissolta, in un corpo dominato da un’alterità inquietante. Fino alla fine il comportamento di Chuam rimane oscuro e inspiegato, e soprattutto resta in ombra la natura di questo male psicologico e spirituale, che sembra tenere saldamente le redini della vicenda.
Diabolico e sinistro, di quelli che scalfiscono, è invece lo sguardo del Sensei Kimura, personaggio spietato che progressivamente scopriamo nell’opera Kyōaku, The devil’s path di Shiraishi Kazuya. Il film si pone come crime story che vede un condannato per pluriomicidio richiedere giustizia, dal momento che l’uomo che sembra essere stato il mandante dei crimini da lui commessi, il Sensei, è rimasto impunito. A condurre una meticolosa indagine è un giornalista, e più volte nel corso della narrazione viene messa in dubbio la verità e l’esatta posizione del Male in questo vero e proprio “sentiero del diavolo”.
Gli esempi qua riportati, a cui è stato possibile assistere durante quest’ultima edizione del Far East Film Festival, sono solo alcune dimostrazioni di questa tendenza di genere, ad ulteriore conferma che l’ambiguità dell’uomo e l’impossibilità di afferrare e gestire con un approccio manicheo la sua essenza sembrano infatti essere il leit-motiv e il punto di confluenza di un’inquietudine contemporanea, e che il cinema asiatico mette in scena con sempre maggiore frequenza.