Recentemente Mimesis ha pubblicato il nuovo saggio dell’esperto di cinema giapponese e traduttore Giacomo Calorio, To the Digital Observer. Dopo averlo recensito non potevamo che intervistare l’autore. Ne è uscita una interessante discussione sul rapporto tra politiche culturali e diffusione della J-Culture, sugli sviluppi del J-Horror e la sua influenza internazionale, e sulle difficoltà che incontra un traduttore nel processo di adattamento culturale.
NipPop: Nel tuo saggio To the Digital Observer accenni spesso alle politiche di supporto alle industrie culturali di maggiore successo da parte del governo giapponese. Secondo te sono state incrementate sotto i governi conservatori di Abe Shinzō?
Giacomo Calorio: Sì, da questo punto di vista Abe ha proseguito sul sentiero tracciato da Koizumi, rinnovando il sostegno all’industria dell’intrattenimento che gravita intorno alla J-Culture. Al di là delle cifre, direi che l’immagine del primo ministro che si presenta alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi 2016 con il berretto di Super Mario non necessiti di ulteriori commenti. Ovviamente sì, è in parte anche una forma di auto-orientalismo di convenienza con cui il Giappone adotta e sfrutta un interesse proveniente dall’estero nel quale un tempo non avrebbe mai sperato. Non credo che la questione sia essere conservatori o meno: per quanto nuova, questa immagine ipermoderna esprime innegabilmente una forte giapponesità che ha ormai sviluppato una propria “tradizione” radicatasi negli ultimi decenni. Bisognerà vedere se questo fascino continuerà a persistere anche in futuro o se quello che Iwabuchi Kōichi chiama “odore culturale” non finirà per disperdersi del tutto, ora che troviamo questo “Giappone fuori dal Giappone”, usando invece le parole di Giorgio Amitrano, praticamente ovunque, in ogni settore e a ogni livello, dai libri per bambini allo stile manga adottato come “cassetta degli attrezzi” da fumettisti di tutto il mondo, dalla cucina all’abbigliamento, dai video degli youtuber italiani al lessico della pornografia. Osservando i miei figli e i loro amici, non possono non notare come essi crescano pronunciando la parola kawaii e disegnando personaggi in stile kawaii (una parola che io ho imparato solo all’università), ma senza percepirne (più) la giapponesità e il fascino esotico e lontano che ha ammaliato le generazioni precedenti.
Abe Shinzō che riceve la “staffetta” alle Olimpiadi di Rio 2016
NipPop: In un recente incontro in collaborazione con NipPop, la fumettista Ichiguchi Keiko ha mostrato e descritto una serie di esempi di propaganda politica e sociale realizzati rifacendosi a un’estetica e a un immaginario tipicamente pop, quando non moe. La recrudescenza del nazionalismo in certi settori della società nipponica, con la conseguente ripresa di alcuni temi cari al nihonjinron, e il crescente ricorso alla J-Culture come simbolo dell’identità giapponese sono a tuo parere solo occasionalmente coincidenti o sono legati a una più profonda riconfigurazione dell’immaginario e dell’identità del Sol Levante?
G.C.: Sappiamo quanto la tradizione giapponese sia al contempo antica e anticamente disponibile ad accogliere elementi esterni facendoli propri. L’estetica manga, da Tezuka in avanti, si è plasmata in larga parte intorno al fumetto e al cinema americani, ma è diventata ben presto un patrimonio nazionale riconoscibilissimo. Credo che non importi quanto antico sia un immaginario, ma quanto lo si ritenga proprio, perché alla fine siamo tutti esseri viventi che vivono nell’arco di a malapena un secolo, a dir tanto, e consideriamo “nostro” ciò che lo è stato nella nostra infanzia o per i nostri genitori e nonni. E questo non vale di certo solo per il Giappone: consideriamo la pizza un patrimonio nazionale (che alcuni politici rivendicano contro piatti di origine “straniera”) perché siamo cresciuti mangiandola, ma essa è parte della nostra Storia solo da tempi relativamente recenti, e a sua volta frutto di contaminazioni. In una nazione con una produzione culturale pop così enorme, pervasiva e radicata negli ultimi decenni, mi pare perfettamente naturale che la politica faccia leva su questa più che sul sumie, sulle lacche o sul teatro Nō.
Annuncio propagandistico delle Forze di autodifesa giapponesi
NipPop: Per tornare alle radici della tua produzione e della tua e ricerca, cosa pensi del più recente cinema di Kurosawa Kiyoshi? Leggendo To the Digital Observer si ha infatti l’impressione che tu sia piuttosto dubbioso riguardo alla qualità degli sviluppi della sua produzione. Pensando a pellicole come Creepy o Daguerrotype pare che la sua produzione sia passata dal focus sulla riproduzione tecnica come strumento della scomposizione dell’identità, coerentemente con certi filoni J-Horror, a quello sulla rappresentazione come causa scatenante ed evento accentratore della riproduzione stessa. Questo cambio di paradigma nel cinema di Kurosawa, che pur tratta ancora questioni metacinematografiche all’interno delle strutture del genere, secondo te è significativo all’interno del mutato panorama cinematografico nipponico? Sempre che tu sia d’accordo, s’intende.
G.C.: Con l’eccezione di thriller più spiccatamente di genere come appunto Creepy (che tra parentesi è uno dei suoi ultimi film che ho preferito), la mia impressione è che una larga parte del cinema di Kurosawa ruoti in primis intorno al mistero della scienza nella sua accezione più ampia, e il percorso che tu descrivi mi sembra perfettamente coerente in tale ambito. In questo senso, sì, forse il suo cinema è cambiato seguendo la realtà che lo circonda (più che il panorama cinematografico), dopo averla preconizzata in film come Kairo. Ciò detto, mi pare innegabile che, salvo pochi casi, negli ultimi anni il suo cinema abbia perso di mordente, e pochi dei suoi lavori recenti mi hanno entusiasmato o convinto del tutto (così come nessuno di essi mi ha deluso completamente, del resto). Aspetterei a dare Kurosawa per finito, in ogni caso. Al di là dei gusti e del fatto che il suo posto nella storia del cinema giapponese mi pare ormai solido e indiscutibile, e che abbia fatto senz’altro scuola in Giappone come all’estero, tuttavia, la sua idea di cinema, ancora molto personale, non mi sembra affatto paradigmatica dello scenario cinematografico attuale in Giappone: uno scenario dominato dalle commissioni di produzione all’interno del quale figure dalla forte connotazione autoriale come lui, registi che tra mille difficoltà si sforzano di perseguire una propria poetica, finiscono per disperdersi. Kurosawa è un autore in tutto e per tutto, e come tale è percepito soprattutto all’estero e, per quanto si sia fatto strada nel cinema di genere, credo che ciò che negli anni Novanta rappresentò un’opportunità abbia purtroppo limitato, se non soffocato, la sua vena espressiva e le opportunità produttive nelle quali esprimerla (non che Kurosawa sia l’unica vittima di questo sistema, certo).
Creepy (Kurīpī: Itsuwari no rinjin, 2016) di Kurosawa Kiyoshi
NipPop: Restiamo nell’ambito della società nipponica, stavolta con una domanda più generica, forse anche troppo: il Giappone viene spesso considerato all’avanguardia nello sviluppo e nello studio di una serie (molto eterogenea, va detto) di fenomeni sociali e culturali, siano essi la cultura otaku, il massiccio ricorso narrativo al fanservice o il problema degli hikikomori. Anche questioni molto controverse possono diventare quindi testimonianze di un’unicità giapponese e venire pertanto strumentalizzate all’interno di politiche identitarie. Questa connotazione “avanguardista” può essere frutto di un fraintendimento ‘occidentale’ determinato dalla prospettiva a distanza, per tornare ai temi del tuo saggio, o ha delle motivazioni meno aleatorie e più legate a eventuali scelte comunicative del paese stesso?
G.C.: Credo che si tratti di un insieme di cose, una matassa complessa che non so se sono in grado di districare, né credo di essere la persona più indicata a farlo: mi occupo di cinema, non sono un sociologo, quindi esco dal seminato con molta cautela. Da un lato, l’abbiamo già detto, è certo vero che il Giappone, per molti aspetti della sua produzione culturale, ha rappresentato un’avanguardia per il resto del mondo negli ultimi decenni. Cose che là capitava di vedere a cavallo dei due millenni, sono giunte qua solo anni più tardi, prima importate grazie al nuovo scenario globale e digitale, poi esportate attivamente. Se questa connotazione possa essere estesa anche ad aspetti più preoccupanti della società contemporanea giapponese, però, è difficile dirlo. Posso solo ipotizzare che per esempio, sul versante lessicale, certi termini siano stati adottati dagli stessi fan, talvolta con degli sfasamenti semantici rispetto all’accezione che una determinata etichetta aveva in patria (penso al termine otaku), e che poi si siano “incarnati” tra quelle stesse utenze per diverse ragioni (moda ed emulazione? Graduale riproduzione dell’ambiente sociale e relazionale in cui si muovono i giovani giapponesi? Società sempre più simili tra loro nello scenario globale?). Dall’altro, forse, i media nostrani si sono semplicemente abituati a chiamare con termini giapponesi realtà che già prima esistevano qui come nel resto del mondo. Tutto ciò, comunque, riguarda solo tangenzialmente il cinema, in ragione dei suoi caratteri periferici rispetto a questa galassia culturale e alla diversa natura dei suoi fan veri e propri.
Akihabara, quartiere di Tōkyō progressivamente divenuto emblema della cultura otaku
NipPop: Anche il J-Horror viene spesso reputato un’avanguardia per il modo in cui ha (re)inserito tematiche metalinguistiche e sociali all’interno del cinema di genere, facendone uno strumento di problematizzazione di quanto viene rappresentato e diffuso. Tornando quindi all’inizio del tuo percorso, ma rivolgendoci questa volta a ovest, quanto ritieni possibile ed eventualmente evidente una certa influenza, più “profonda”, a lungo termine e non solo d’immaginario, dell’horror giapponese su quello d’oltreoceano, per esempio in pellicole fondate su torsioni narrative e inaspettate esplosioni di violenza, sempre più abbondanti negli ultimi anni? Senza scomodare traiettorie autoriali come quella di Nicolas Winding Refn, spesso legate a tradizioni cinematografiche che già furono del cinema europeo, si possono citare Midsommar di Ari Aster, Grave di Julia Ducournau o A Cure for Wellness di Gore Verbinski, che d’altronde è stato anche il regista di The Ring.
G.C.: Credo che le storie delle singole cinematografie siano sempre state interconnesse e che, a maggior ragione, ora lo siano a un punto tale che è difficile stabilire cosa ha influenzato cosa e quando. Lo stesso J-Horror ha attinto non solo in egual misura dalla propria produzione classica, il cinema kaidan, e dal cinema statunitense ed europeo del passato, ma mostra punti di contatto (quando non vere e proprie derivazioni) anche con lavori di poco precedenti o coevi, come Scream, Il sesto senso o The Blair Witch Project. Al di là delle icone e degli immaginari brutalmente trapiantati all’estero, il J-Horror migliore ha fatto sì certamente scuola, contribuendo all’inaugurazione di una nuova stagione per il genere, soprattutto per quanto riguarda le strategie di rappresentazione dell’inquietudine, della violenza e dell’orrore e per la sua capacità di parlare con efficacia del proprio tempo, e il suo impatto si è avvertito anche al di fuori del cinema di genere: tornando a Kurosawa, per esempio, forse sono solo coincidenze ma mi è capitato di ritrovare alcuni aspetti del suo cinema in opere di autori importanti e già da tempo affermati come Haneke (Niente da nascondere) e Assayas (Personal Shopper). Per quanto riguarda il panorama horror internazionale, sono tanti gli autori e le cinematografie che hanno saputo fare tesoro della lezione giapponese, e nei casi migliori sono anche stati in grado di rielaborarla, personalizzarla, portarla più avanti e con risultati migliori di quanto non sia stato fatto nella stessa patria d’origine in tempi recenti. Oltre ai casi da te citati (anche se devo ammettere di non aver visto il film di Verbinski), penso a horror d’atmosfera come Shelley, Non lasciarmi, The Witch, L’ombra della paura, Babadook, A Ghost Story, It Follows, Get Out, per citare solo i primi film che mi vengono in mente. La storia dei generi è in fondo anche una matassa inestricabile di debiti, passaggi di testimone e influenze reciproche, quindi forse sarebbe ozioso scervellarsi su quanto ci sia di giapponese in questi film. Meglio concentrarsi solo sui meriti di ciascuna opera e di ciascun autore.
Personal Shopper (2016) di Olivier Assayas, esempio dell’influenza J-Horror sul cinema d’autore occidentale
NipPop: Tu sei principalmente noto per i saggi su generi o figure iconiche del cinema giapponese, come il J-Horror o Mifune Toshirō, ma un’altra tua attività lungo corso è la traduzione di manga e occasionalmente di anime. In questa produzione ampio è il numero di shōnen d’azione e d’avventura, generi spesso caratterizzati da un worldbuilding complesso e da un ampio ricorso a lessici specifici. Come ci si confronta con la traduzione e l’adattamento di opere dai linguaggi ricchi e peculiari come Hunter x Hunter o The End of Evangelion?
G.C.: Curiosamente, le due opere che citi non sono tra le prime che mi verrebbero in mente se dovessi portare a esempio alcuni lavori che hanno presentato particolari difficoltà dal punto di vista linguistico. Hunter x Hunter è ambientato in un mondo fantastico e presenta i classici caratteri dello shōnen quali nomi di attacchi fantasiosi, mostri strani e via dicendo, ma si tratta di una difficoltà minima controbilanciata da una scrittura piuttosto lineare, razionale e pulita. Il problema maggiore è semmai l’enorme quantità di testo e la cadenza rarefatta con cui escono gli ultimi volumi: questo rende estremamente facile perdere il filo della storia. Tremo ogni volta che viene annunciato un nuovo numero, perché è una serie che richiede davvero tanto tanto tempo. A The End of Evangelion, come agli altri anime distribuiti da Panini, ho invece lavorato così tanti anni fa che devo ammettere di non ricordare molto dell’esperienza, se non il fatto che ci lavorai in parte sulle poltrone del Teatro Nuovo Giovanni da Udine in cui si svolgeva il Far East Film Festival, tra un film e l’altro. La fantascienza è un altro genere che di solito presenta un linguaggio molto lineare e privo di involuzioni o deformazioni, quindi di per sé non comporta particolari difficoltà a parte la presenza di un linguaggio “operativo” da rendere con la stessa sintesi e, soprattutto, di termini scientifici o pseudoscientifici composti da sfilze di kanji difficili da sciogliere, con una resa efficace, nella lingua italiana. A ogni modo, si trattava di un’opera che completava una saga già distribuita in Italia, quindi da un lato dovetti rifarmi all’adattamento della serie in modo che non stonasse troppo con i “capitoli” precedenti, dall’altro dovetti correggere alcuni errori che i fan avevano già in larga parte segnalato ed evidenziato: fu quindi in larga parte un lavoro di ricerca. A livello di traduzione vera e propria, trovo molto più difficile lavorare a generi come lo shōjo, in cui la narrazione si fa più eterea, sfilacciata e non lineare e molti significati passano attraverso il non detto, o il manga comico che presenta invece giochi di parole o metalinguistici in abbondanza: una bella sfida per ogni traduttore, ma sempre stimolante. Il genere con cui mi trovo di più a mio agio è senz’altro lo slice of life: ho la fortuna di tradurre Beastars di Itagaki Paru e vorrei che tutti i manga fossero così ben scritti e pensati, a livello di sfumature psicologiche dei personaggi e di come queste si riflettono sul loro linguaggio. Amo conferire una parlata quanto più naturale possibile ai personaggi, e quindi mi trovo decisamente più a mio agio affrontando una messinscena realistica e un’ambientazione quotidiana (al netto del fatto che è ambientato in un mondo di animali antropomorfi, certo!).
Beastars, manga di Itagaki Paru recentemente tradotto da Calorio