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“Dendera”: Una favola oscura di autodeterminazione, morte e sopravvivenza

22 Agosto 2025
Roberta Cavallo

Dendera di Yuya Satō (2009) è un romanzo potente e oscuro, di sopravvivenza e crudeltà, intriso di sangue. L’autore tratteggia una dimensione sospesa tra neve e mito, un luogo che si rende soglia, come un confine sottile e remoto tra vita e morte. Lo stesso nome è evocativo, anche se non ha niente a che vedere con i paesaggi dell’Antico Egitto a cui rimanda. Tutt’altro, anzi: Dendera è un altopiano innevato, crudele, nascosto persino agli occhi degli dei, dove gli anziani – con l’inganno di un’ascesa – vengono in realtà abbandonati a morire.

In questo scenario spietato, ad accompagnare la narrazione è la voce di Kayu, settantenne abbandonata alle pendici di un monte e pronta a morire così come vuole la tradizione, aspettando che il gelo la prenda con sé. Nel momento in cui esausta sente di star abbandonando la vita, qualcosa la strappa dal suo sonno mortifero: al suo risveglio, si trova in un insediamento nascosto, un villaggio fatto di sole donne, che come lei sarebbero dovute ascendere, ma hanno deciso di non morire. Dendera, appunto, che si schiude di fronte ai suoi occhi, tra l’ordine imposto e la ribellione silenziosa, tra il rifiuto della fine e la scoperta di un nuovo inizio.

In questo microcosmo femminile, fondato sul rifiuto della morte e dell’annientamento, le donne che lo abitano sono prossime ai cento anni e vivono in condizioni precarie, tra la fame più feroce del freddo, malattie e rancori antichi così forti da superare la morte stessa. Kayu inizialmente rifiuta la vita, si trova costretta a pensare, a interrogarsi su sé stessa e su ciò che ha vissuto, scopre di dover trovare un ideale a cui aggrapparsi e qualcosa in cui credere, qualcosa che non fosse quel paradiso promesso dopo l’ascesa. Il processo però è lento, inesorabilmente violento: vivere di nuovo, vivere ancora è certamente un atto di resistenza, ma anche una nuova prigione. Inizia così una riflessione lenta e profonda sul valore della vita, sul diritto di scegliere, sull’ambiguità della sopravvivenza.

Dendera è un romanzo che si sviluppa su più dimensioni: non è solo filosofico o sociale, è una favola di violenza e resistenza, una battaglia aspra contro la natura – rappresentata da un’orsa affamata – che diventa sì nemica, ma anche specchio della brutalità umana. Inizia così una lunga lotta contro l’animale, disperata e sanguinosa, in cui nessuno è eroe. Questo scontro rappresenta il cuore del romanzo e rivela la necessità di controllo dell’essere umano, tanto spietato quanto le forze che cerca di contrastare. L’orsa d’altro canto ha una voce tutta sua ed è simbolo di una purezza primitiva e istintiva, in contrasto con l’ambiguità morale delle avversarie umane. 

La scrittura di Satō è essenziale e incisiva e risente degli insegnamenti di Murakami, erede del realismo magico giapponese. Ogni parola è precisa, tagliente ed essenziale e la sua narrazione è glaciale, priva di sentimentalismo o pietà. Dendera è una favola nera e non offre consolazione, nemmeno per un istante. La comunità delle vecchie sopravvissute è tenuta insieme non dalla sorellanza, ma dallo stesso istinto di sopravvivenza e dallo stesso egoismo che la lacera, portando con sé una fragilità insopportabile. 

Kayu, immersa nella desolazione che si trova attorno e dentro di sé, si trova costretta a pensare, di mettere in discussione la sua vita, ciò che è stata e sarebbe dovuta essere. Dendera è teatro di una trasformazione intima, fino alla scoperta – seppur tardiva – di un senso per la propria vita.

Dendera è un romanzo potente, stratificato e simbolico e costringe il lettore a interrogarsi su cosa significhi la vita, sul nostro valore e se o quando abbiamo il diritto di scegliere la nostra fine. Parla di donne, donne crudeli e mostruose, spaventosamente attaccate alla vita, che reclamano il diritto di esistere anche quando il mondo le aveva già sepolte. È la storia di un luogo sospeso nel tempo, ma non avulso da continue sfide, con il corpo, la mente e la fame, per riappropriarsi della propria identità, per riprendersi ciò che non può essere strappato via: il proprio significato. 

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